IL PENSIERO DI BRANDI SUL RESTAURO
tratto da
Jukka Jokilehto
Una storia del restauro architettonico
(trad. S. Peroni,
2001)
Originale: A History of
Architectural Conservation, Butterworth-Heinemann, Oxford 1999,
ristampa 2002 |
|
Estratto dal
Capitolo 8,
Teorie e concetti |
La teoria del restauro di Cesare Brandi
Nato a Siena, Cesare Brandi (1906-1988)
intraprese studi umanistici e
giuridici, iniziando la sua carriera nel 1930 presso l’amministrazione
delle Antichità e Belle Arti e le sue soprintendenze; fu il primo
direttore del nuovo Istituto Centrale del Restauro di Roma, dal 1939 al
1959. Scrittore attivo e critico d'arte, Brandi tenne lezioni di storia,
teoria e pratica del restauro ed insegnò storia dell'arte presso le
Università di Roma e di Palermo. Dal 1948 compì numerose missioni
all'estero per conto dell'UNESCO.
L'Istituto Centrale si trovò pienamente impegnato nella protezione,
salvaguardia e restauro di opere d'arte in pericolo o danneggiate,
forzando i restauratori a trovare soluzioni pratiche ai numerosi problemi
inerenti, come ad esempio la reintegrazione delle lacune. Un altro
problema, avvertito da Brandi, consistette nel conflitto d'interessi tra i
diversi protagonisti del processo di
restauro, particolarmente fra umanisti e scienziati. Come capo
dell'Istituto, Brandi ebbe modo di sviluppare e specificare ulteriormente
la teoria del restauro delle opere d'arte; l’Istituto diverrà uno dei
centri internazionali di conservazione di maggiore prestigio, consultato
dai restauratori di tutto il mondo.
In stretta collaborazione con Argan dall’inizio degli anni 1930, Brandi
esaminò le questioni filosofiche relative alla definizione ed al restauro
delle opere d’arte ed architettura. In questo periodo i ‘dogmi’ di Croce
furono messi in discussione e si diede maggiore spazio alla filosofia e
storiografia tedesche ed austriache di
Husserl, Fiedler, Wölfflin, Benjamin, Heidegger, Panofsky e Riegl. Sotto
il profilo della critica e storia dell’arte, il tema principale degli
scritti di Brandi si svolge intorno alla definizione della specificità
dell’opera d’arte nel senso più ampio del termine. Questo fu il soggetto
della serie di dialoghi alla maniera platonica, Elicona, sulla
pittura, scultura architettura e poesia (1945, 1956, 1957), seguita dai
saggi Segno ed Immagine (1960), Le due vie (1966) e
Teoria generale della critica (1974), che conclude il pensiero di
Brandi in un confronto critico contro le tendenze filosofiche correnti,
tra cui la semiologia e lo strutturalismo. Questi studi sono accompagnati
dal volume Teoria del restauro, pubblicato nel 1963, che riguarda
ogni tipo d’opera d’arte, dai dipinti ai monumenti.
Questa teoria è spesso citata, ma il suo contesto filosofico è poco
conosciuto fuori dall'Italia, sebbene sia essenziale alla comprensione dei
princìpi di restauro proposti.
Processo creativo
In contrasto con le mode tendenti ad
integrare la creatività umana nel contesto socioeconomico generale, Brandi
sostenne la specificità dell’opera d’arte, rivendicando la sua origine da
un processo creativo unico. Di conseguenza, anche la percezione dell’opera
richiede un processo critico per affermare il proprio significato nella
coscienza umana, un processo simile, nelle sue linee, a quanto espresso
nella filosofia di Heidegger.
Questa consapevolezza parte da un intento profondo, da cui emerge
progressivamente; attraversando vari stadi, trova la sua liberazione in
un’immagine che prende forma gradualmente nella mente dell’artista.
L’inizio del processo creativo si verifica quando l’intuizione artistica
avviene per la prima volta. Nel dialogo Carmine o della Pittura,
Brandi ha descritto tale evento riferito ad un dipinto di paesaggio:
‘Vedi, Carmine, se tu ti affacci ad una finestra e guardi il panorama,
l’intuizione di quel panorama avviene di colpo, per dato e fatto della
percezione che immediatamente si ordina nella tua coscienza: sarebbe
impossibile per te ostacolare la formazione interiore di quella
conoscenza, se non chiudendo gli occhi, ossia interrompendo il nesso
esistenziale con quel paesaggio. Ma, se tu sei un pittore e, nell’occhiata
che getti al panorama, senti risvegliarti un interesse particolare per
quel paesaggio, avverrà un cambiamento impercettibile dentro di te, eppure
fondamentale, che può di lontano suggerire il confronto con quello che
avviene, quando si aggiusta le lenti di un binocolo: con una nuova
chiarezza ti balzerà contro il paesaggio. Ma, in questo caso, non con più
precisione ottica, se mai più definito all’interno stesso della sua
apparenza. Questa seconda visione, che in senso proprio si può dire
fenomenica, non si identificherà alla prima, esistenziale, che ne hai
avuto, né la distruggerà, ma sarà meno vivo in te, in un certo senso,
perché si porrà decisamente fuori del tuo approdo, eppure acquisterà una
determinatezza, una necessità, una invariabilità che non aveva quando ti
appariva unicamente come un dato empirico.’ (Brandi, 1992a:8-9)
Vari elementi concorrono nella ‘realtà
esistenziale’, colore, relazione spaziale, luce e ombra,
ideati dall’artista ed usati nella
costituzione graduale dell’oggetto in una immagine, come atto sintetico
nella coscienza dell’artista. Tale processo rappresenta, perciò, il
passaggio di interiorizzazione dell’oggetto ad immagine; la coscienza
trova in questa immagine la realtà in
modo empirico e immediato. La nuova realtà che si forma nella mente
dell’artista è realtà senza esistenza fisica e perciò ‘realtà pura’. Tale
realtà pura differisce dalla realtà esistenziale e rispecchia la struttura
effettiva della spiritualità umana; è il fondamento indispensabile per il
pensiero d’arte e si riferisce solo all’arte. In una fase successiva del
processo creativo, il rapporto con la realtà esistenziale si interrompe e
l’immagine si forma nella mente dell’artista; la sostanza conoscitiva
dell’immagine si forma in un simbolo e si rivela nella forma. L’artista
procede quindi alla sua realizzazione materiale; l’opera d’arte è quindi
fatta e costruita come realtà fisica. Quando l’immagine è stata esternata
ed ha preso forma materiale, l’opera inizia la sua esistenza, indipendente
dall’artista.
Una volta che il materiale è stato usato nella costruzione fisica, passa
alla storia come risultato di opera umana. Prendendo lo stesso tipo di
marmo dalla stessa cava in due tempi differenti, uno al tempo della
creazione originale e l’altro all’epoca del restauro, la materia è la
stessa chimicamente, ma con una differente rilevanza storica
sia nella esecuzione sia nell’aspetto. Non si può, perciò, pretendere che
una ricostruzione possa avere lo stesso significato dell’originale; essa
potrebbe diventare invece, storicamente ed esteticamente, un falso. Il
materiale ha inoltre un rapporto con il suo contesto, ambientale e di
luce, che contribuisce al carattere dell'immagine. Per la stessa ragione,
il trasferimento di un’opera d’arte dalla sua collocazione originale può
essere motivata solo in casi eccezionali, al fine di garantirne la
conservazione. La ‘patina’ deriva dal processo di invecchiamento e la sua
rimozione priverebbe il materiale della sua antichità e ciò potrebbe
disturbare l’immagine.
L’idea principale, nella teoria di Brandi, consiste nella definizione del
concetto, non quale imitazione della natura, come ritenuto per secoli, ma
come risultato di un processo creativo autentico, con l’artista stesso che
finge da protagonista attivo. Brandi evidenziò la differenza tra opere
d'arte e 'prodotti comuni', il processo creativo relativo all’arte e
quello mirato ad obiettivi pratici particolari, ad esempio nella
progettazione e produzione di ‘utensili’ o ‘strumenti’ (la stessa
distinzione è stata formulata da Heidegger). Il processo di produzione di
uno strumento od oggetto, una sedia, un tappeto, sarà dettato da requisiti
funzionali piuttosto che risultare da un processo creativo autonomo. Un
tappeto o un vaso sono oggetti disegnati per uno scopo particolare pratico
ed i loro elementi figurativi acquistano, quindi, una funzione più
decorativa o ornamentale, piuttosto che di opera d’arte ‘pura’. D’altro
canto vi sono casi in cui un oggetto, come un tappeto persiano, sebbene
fatto per uno scopo preciso, può essere considerato un’opera d’arte; esso
dovrà allora essere inteso nella sua dimensione artistica e non più ideato
per un uso specifico.
L’architettura non necessita di un oggetto esterno per si inizi il
processo creativo, ma si riferisce ad un oggetto interno. Il bisogno
pratico di architettura può essere ritenuto l’origine di uno schema
funzionale, tramite il quale la sostanza conoscitiva è fornita
all’immagine. L’architettura può perciò considerarsi derivata da un
processo creativo e divenire opera d’arte; “fra la presunta mancanza di
oggetto e la rispondenza ad un bisogno, io sostituisco, per
l’architettura, la sua funzionalità e l’impossibilità di essere soltanto
funzionale, senza negare sé stessa come architettura e ridursi ad una
passiva costruttività” (Brandi, 1992a:165). Le discipline che
caratterizzano l’architettura si riferiscono allo sviluppo delle
disposizioni pratiche e strutturali, in evoluzione secondo le necessità.
Quando la spiritualità umana si sente spinta oltre i requisiti pratici,
l’architettura diventa ‘immateriale’ e ‘decantata’ nella sua forma; a
partire dall’idea schematica funzionale di un tipo di edificio (ad
esempio una chiesa) la forma sarà resa gradualmente concreta nello
spazio. In questo processo nasce quello che Brandi chiama ‘ornato’,
indicando la transizione qualitativa dell’architettura da un semplice
schema disciplinare ad una forma artistica, la ‘creazione fertile’ degli
elementi architettonici, quali una colonna o un architrave. In questi
princìpi si nota un accostamento con le idee di Ruskin sui temi della
costruzione e dell’architettura.
Restauro
Una volta concluso il processo creativo, l’opera d’arte che ne risulta
esiste nel mondo come presenza nella consapevolezza umana. Il restauro può
allora essere preso in considerazione, ma, ogni volta che si intraprende,
deve basarsi sul riconoscimento del manufatto quale opera d’arte,
vale a dire quale prodotto speciale dell’attività umana. Il restauro
dipenderà da questo riconoscimento. Dalla sua prima definizione di
restauro, nel 1948, Brandi identifica due linee di pensiero: una diretta a
ridare efficienza ai prodotti comuni dell’attività umana; l’altra riferita
al vero e proprio restauro di prodotti speciali, come gli oggetti
artistici. In base a questa definizione, un’opera d’arte può essere
restaurata solo sulla base dell’approccio estetico all’opera stessa, non
questione di gusto ma legata alla specificità dell’arte. È l’opera d’arte
che condiziona il restauro, non l’opposto.
Il processo di riconoscimento dell’opera d’arte/architettura
consiste nella sua identificazione in quanto tale, studiato da Brandi in
Le due vie (Brandi, 1966; Brandi, 1989). Invece di assumere il
punto di vista dell’artista/architetto o dello spettatore, Brandi propone
di analizzare l’opera d’arte:
1)
in sé e per sé, nella sua struttura;
2)
nel momento in cui è accettata nella coscienza.
Se si prende l’esempio di un edificio
storico, possiamo capire come non sia costituito solo da una certa
quantità di materiale, ma come ciascun elemento e lo stesso sistema
strutturale spaziale siano condizionati da un concetto architettonico.
L’edificio, nella sua forma materiale, rappresenta quindi un fenomeno
fisico ma, allo stesso tempo, il materiale ha anche la funzione di
trasmettere il concetto architettonico all’osservatore. L’edificio come
opera d’arte, perciò, è più che un fenomeno fisico; contiene il concetto
artistico, che è immateriale (fenomeno che fenomeno non è). Sebbene
il materiale dell’edificio invecchi con il tempo, il suo concetto
artistico è percepito dalla coscienza umana e ciò può avvenire solo nel
presente. Quindi, Brandi conclude, un’opera d’arte esiste sempre nel
presente. Di conseguenza il riconoscimento, da parte di un individuo, ha
bisogno di essere stabilito ogni volta che si contempli l’opera, anche
sotto il profilo del suo restauro.
Considerando il suo carattere speciale,
un’opera d’arte è un intero e non la semplice somma delle sue parti; tutti
gli elementi insieme formano ‘l’unità dell’intero’ secondo il concetto
dell’artista, o architetto, ed il particolare modo in cui è stato
costruito. Le tessere di un mosaico in sé stesse non costituiscono opera
d'arte, come non lo è la collezione ad hoc di tali tessere. Inoltre
un’opera d’arte o un’architettura possono essere veramente e solamente
‘quello che appare’; non ci si può riferirsi ad un modello esterno per la
loro ricostruzione ideale secondo uno schema stilistico, come spesso
accadeva nel diciannovesimo secolo. L'intero si manifesta invece in
un’indivisibile unità, che potenzialmente può continuare ad esistere nelle
sue parti, anche se l’originale è ridotto in pezzi, è diventato un rudere.
Il restauro si deve limitare all’unità originaria e deve basarsi su ciò
che è suggerito dall’unità potenziale dell’opera d’arte, tenendo conto
degli aspetti storici ed estetici.
L’opera d’arte presenta una duplice
polarità, consistente in due esigenze o ‘istanze’, l’estetica e la
storica, che formano un insieme con l'unità potenziale. La sua storicità è
indipendente dai valori estetici e dal modo con cui essi possono variare
con il tempo. Ambedue le istanze devono essere considerate in caso di
restauro. Questo principio è condensato in una definizione di restauro
fondamentale accompagnata da due princìpi complementari
-
Il restauro costituisce il
momento metodologico del riconoscimento dell’opera d’arte, nella sua
consistenza fisica e nella sua duplice polarità estetica e storica, in
vista della sua trasmissione al futuro.
-
Si restaura solo la materia
dell’opera d’arte.
-
Il restauro deve mirare al
ristabilimento della unità potenziale dell’opera d’arte, purché ciò sia
possibile senza commettere un falso artistico o un falso storico, e senza
cancellare ogni traccia del passaggio dell’opera d’arte nel tempo.
Dalla definizione di opera d’arte risulta che tempo e spazio costituiscono
le condizioni formali e “si ritrovano strettamente fusi nel ritmo che
istituisce la forma”. Inoltre il tempo rappresenta l’aspetto
fenomenologico nell’opera d’arte, distinto in tre fasi specifiche che
formano il suo tempo storico:
1.
la durata dell’estrinsecazione dell’opera d’arte mentre
viene formulata dall’artista;
2.
l’intervallo interposto fra la fine del processo creativo ed
il momento in cui la nostra coscienza attualizza in sé l’opera d’arte;
3.
l'attimo di folgorazione dell’opera d’arte nella coscienza
nel presente.
L’opera d’arte si storicizza in due momenti separati: quando viene
concretata dall’artista (ad esempio un palazzo costruito nel sedicesimo
secolo) e quando viene riconosciuta dalla coscienza di un individuo nel
presente. La ‘istanza storica’ può trovarsi in relazione a differenti casi
di restauro di un’opera d’arte. Nel caso estremo di un rudere al di là del
riconoscimento, quale testimonianza di attività umana, il restauro può
essere inteso come consolidamento e conservazione dello statu quo.
La difficoltà è capire quando un’opera d’arte cessa di essere tale per
diventare rudere. L’unico modo è di definire fino a che punto l’oggetto ha
mantenuto la sua unità potenziale (ad esempio, le strutture medioevali di
S. Chiara a Napoli). Non si deve, perciò, tentare di ristabilire l’unità
potenziale dell’opera in tal misura da distruggere la sua autenticità e da
imporre così una nuova realtà, storicamente falsa, tale da prevalere in
assoluto sull’opera antica.
Brandi afferma che il compito della storia dell’arte è di esplorare - in
successione temporale - il momento ‘extratemporale’, dimensione interna di
tempo e ritmo; essa non va confusa con la storia del
‘tempo temporale’ relativa ai
cambiamenti del gusto e delle mode, che “raccoglie nel suo flusso l’opera
d’arte conclusa ed immutabile”. Il restauro è legittimo quando interviene
nella terza fase che include presente e passato, poiché non si deve
pretendere di alterare il tempo o di abolire la storia. Il restauro dovrà
essere inoltre specificato come evento storico, in quanto azione umana; è
parte del processo di trasmissione dell’opera d’arte al futuro. Ogni altro
momento, scelto per il restauro, porterà a risultati arbitrari.
Identificando il restauro con il momento della creazione artistica, ad
esempio, risulterà in un restauro di fantasia, contraddittorio con il
concetto di opera d’arte come processo concluso, come altrettanto lo
sarà il restauro stilistico o period
restoration, come viene definito negli U.S.A.
Un altro tema attinente riguarda la spazialità interna dell’opera
d’arte, in riferimento allo spazio rappresentato dal suo contesto
fisico. La spazialità architettonica non è contenuta solo dalle mura
dell’edificio in questione, ma coinvolge anche il rapporto con la
spazialità del contesto circostante costruito.
Esistono problemi soprattutto nei
centri storici, dove i cambiamenti nel tessuto urbano modificano le
condizioni spaziali dei monumenti storici specifici. Lo stesso problema è
valido in relazione ai resti architettonici. I ruderi sono spesso
integrati al contesto paesaggistico o in un panorama, come nel caso dei
parchi inglesi con ruderi di abbazie medioevali, e dovrebbero essere
trattati adeguatamente in relazione a tale nuovo insieme artistico.
Ogni volta che le istanze della duplice polarità, estetica e storica,
possono apparire in conflitto, non
si deve tentare di raggiungere una soluzione dettata dal compromesso, ma
piuttosto perseguire un adattamento inerente l’opera d’arte stessa.
Considerando che la specificità dell’opera d’arte è nel suo essere arte,
l’istanza storica può in genere essere interpretata come secondaria.
Quando un oggetto, che ha mantenuto la sua unità potenziale, presenta
aggiunte che oscurano o disturbano la sua immagine artistica, l’istanza
estetica può giustificare la loro rimozione, ovviamente prendendo la
precauzione di documentare il fatto. Tuttavia, quando tali aggiunte si
sono consolidate iconograficamente, la loro rimozione potrebbe significare
la ricostituzione dell’oggetto ex novo, che non è lo scopo del
restauro. Perciò, ogni volta che vengono contemplate delle rimozioni, il
giudizio dovrà basarsi su valori che prendono in considerazione sia
l’istanza estetica sia quella storica.
Brandi ha criticato una certa attività di ‘restauro archeologico’ in cui i
ruderi erano spesso trattati da un punto di vista puramente storico. Anche
le rovine sono molte volte resti di opere d’arte, che devono essere,
perciò, sottoposte allo stesso tipo di processo critico. I ruderi possono
anche essere parte di un’altra opera d’arte; in tal caso l’unità della
seconda costruzione dovrebbe essere rispettata nel modo dovuto. Ad
esempio, la ricostruzione di una bifora medioevale in una facciata
classica (tendenza tipica di molti paesi europei) può essere difficilmente
giustificabile.
Brandi ha affermato che il materiale, in
relazione all’aspetto estetico di un’opera d’arte, può essere inteso
secondo due funzioni: una relativa alla ‘struttura’, l’altra all'
‘aspetto’ dell’oggetto. Considerando l’importanza artistica di tali
oggetti, la priorità verrà, in genere, assegnata a ciò che è più
importante artisticamente. Se, per ragioni di salvaguardia, sarà
necessario un intervento di consolidamento o rinforzo, essa dovrà
limitarsi a quella parte di materiale che costituisce la struttura,
piuttosto che interferire con l’aspetto. Ad esempio, quando si esegue un
consolidamento in un edificio storico lo scopo è di mantenere l’aspetto
architettonico dell’edificio. D'altra parte, la distinzione di Brandi non
deve intendersi nel senso di attribuire poca importanza alla struttura; in
modo particolare, quando si tratta di architetture antiche, il sistema
strutturale originale deve essere considerato come un elemento essenziale
per il significato stesso dell’edificio. In alcuni casi, la struttura può
essere anche più importante dell’aspetto e spesso contiene informazioni
archeologiche essenziali. Mantenere la sola facciata non è certo lo scopo
della salvaguardia di edifici storici.
Riguardo all’aspetto estetico di un’opera
d’arte, di un edificio storico od anche d’un monumento antico parzialmente
in rovina, qualsiasi reintegrazione potrà essere riferita all’esperienza
accumulata dalla Gestalt-Psychologie, psicologia della forma, nel
valutare il peso visivo dei diversi tipi d’integrazione, in rapporto alle
superfici originali esistenti; nuove, dure e vistose aggiunte possono
facilmente distogliere l’attenzione dai vecchi originali patinati. Tenendo
conto che lo scopo del restauro è di conservare e non di rinnovare un
monumento storico, sarà necessario adeguare la reintegrazione moderna alle
parti storiche e non il contrario. Sotto la direzione di Brandi furono
sviluppati metodi per l’applicazione concreta della teoria al restauro dei
dipinti, inclusi criteri chiari per la reintegrazione delle lacune.
L’ulteriore applicazione di tali criteri agli edifici storici ed a
strutture in rovina sono stati presi in esame particolarmente da Paul
Philippot nei suoi scritti e nelle sue lezioni all’ICCROM (Philippot,
1976). Brandi formulò tre princìpi (Brandi, 1963:45):
1.
l'integrazione dovrà essere sempre e facilmente
riconoscibile ad un controllo ravvicinato, anche se a distanza non dovrà
disturbare l'unità che si è inteso ristabilire;
2.
la materia di cui risulta l’immagine è insostituibile solo
dove costituisca l’aspetto e non la struttura;
3.
i restauri non devono impedire interventi futuri per la
conservazione dell'opera d'arte, ma piuttosto facilitarli.
Riferendosi ai restauri del passato, Brandi
cita la ricostruzione del Panteon per ordine di Adriano come un esempio
non di restauro ma di ristabilimento dell’idea del monumento. I princìpi
nell’attività di ‘ricompletamento’ delle statue antiche nel Rinascimento
(Apollo del Belvedere, Laocoonte) si basavano fondamentalmente sull’idea
di bellezza, in armonia con la filosofia platonica; i restauratori
spiritualmente associavano le statue con il proprio tempo, ‘in una
presenza storica’, come se tradotte in un nuovo linguaggio. Questa è
l’interpretazione di Brandi del Rinascimento, non come rinascita
dell’antichità, ma come nuovo stile che usa elementi e concetti del
passato quali parti d’un nuovo contesto creativo. Per Thorwaldsen, invece,
l’antichità classica era perfetta e remota e il completamento di braccia e
gambe delle sculture di Egina si basò su una valutazione erronea di canoni
definiti; egli riprodusse pertanto le parti perdute con il linguaggio
artificiale del neoclassicismo del diciannovesimo secolo. Secondo Brandi,
i revival del diciannovesimo secolo, per lo più, tentarono di
copiare vecchi schemi, senza veramente creare un nuovo linguaggio
architettonico.
Dal punto di vista storico, comunque, le aggiunte possono essere
considerate come una nuova fase della storia e, specie in architettura,
ciò può essere connesso allo sviluppo ed all’introduzione di nuove
funzioni. Le aggiunte possono, in questo modo, essere legittimate e
dovranno, per principio, essere conservate. In genere, è necessario
rispettare la nuova unità raggiunta con interventi creativi, specie
se rappresenta una fase storica. Ogni rimozione dovrà essere giustificata
e si dovrebbe lasciarne una traccia sul monumento stesso; altrimenti la
distruzione potrebbe indursi facilmente in falsificazione e in abolizione
di storia. In merito alle ricostruzioni, la situazione è diversa quando
siano tese a interferire con il processo creativo e ad abolire lo spazio
di tempo tra la creazione ed il momento del restauro. In disaccordo con la
ricostruzione del campanile di S. Marco, Brandi ritenne che in questo caso
sussisteva solo l’esigenza di un elemento verticale, non di una
ricostruzione completa.
Copie, repliche o riproduzioni possono essere accettate per ragioni di
documentazione e giudicate ammissibili solo se il processo non rechi danno
all’originale, per esempio ricorrendo a
calchi. Sebbene una copia o un falso possano essere conseguiti
usando metodi simili, un falso sarà contraddistinto dall’intenzione di
falsificare; si può raggiungere lo scopo sia pretendendo di far passare
una replica per l’originale, sia producendo un oggetto nello stile di un
periodo passato ed offrendolo sul mercato come un originale di quel
periodo (Brandi, 1992:368; vedere anche
Jones, 1990). Un restauro mal concepito può falsificare il concetto
artistico di un’opera, interpretando erroneamente le sue proporzioni, i
trattamenti superficiali o i materiali, rischio spesso riscontrato specie
nei siti archeologici.
Nella sua teoria, Brandi ha riassunto i
concetti essenziali della conservazione in relazione alle opere d'arte,
inclusa l’architettura; ha messo in risalto la loro specificità e il ruolo
della definizione critica storica, come base di ogni intervento; ha
sottolineato l'importanza della conservazione dell'autenticità storica e
artistica. La teoria illustra il processo critico richiesto ogni volta che
un restauro moderno sia contemplato ed, in tal modo, forma una sorta di
grammatica del restauro, l'uso della quale richiede una coscienza storica
matura. La teoria di Brandi può essere considerata un paradigma
riconosciuto a livello internazionale nello sviluppo della politica di
conservazione. Ha costituito la direttiva fondamentale nei programmi
didattici di molte scuole di specializzazione, compresi i corsi
internazionali dell’ICCROM a Roma ed in differenti paesi del mondo. È
stato un punto di riferimento nella formulazione della Carta di Venezia e
nello sviluppo di altre dichiarazioni e direttive di politica conservativa
dei beni culturali. Brandi stesso partecipò alla preparazione di una nuova
direttiva per l’amministrazione del governo italiano, la Carta del
Restauro del 1972. Lo scopo di questa carta consistette nel
raggruppare i differenti tipi di beni culturali (antichità, architettura,
pittura, scultura, centri storici) e di proporre i princìpi di uno stesso
tipo di approccio metodologico per ciascuno di essi (Monti, 1995:156).
Impatto del pensiero di
Brandi
Non sono mancate critiche alla teoria di
Brandi: il suo concentrarsi sul valore estetico ha creato difficoltà negli
interventi su oggetti di poco o nullo significato estetico o, similmente,
nel confronto tra le esigenze del patrimonio artistico italiano e quelle
di altre parti del mondo (Iamandi, 1993; Scarrocchia, 1995:91). La teoria
è stata accusata di concentrarsi maggiormente sulla conservazione della
‘immagine’ piuttosto che sull’attenzione verso l’intera struttura, specie
per l’architettura; è stata spesso interpretata come una teoria per la
conservazione dei dipinti. Molte delle questioni possono comunque trovare
risposta nei testi di Brandi stesso, come ha dimostrato Carbonara, il
quale afferma che Brandi, invece di contraddire i princìpi iniziali del
restauro critico, li ha in effetti ampliati in un inquadramento più
generale (Carbonara, 1997:45; anche Carboni, 1992). Paul Philippot ha
inoltre dedicato studi specifici all’interpretazione delle teorie di
Brandi, in relazione a situazioni pratiche particolari, specie riguardo
alla pittura, scultura ed architettura (Philippot, 1976, 1989a, 1990).
I primi tre direttori dell’ICCROM hanno
scritto importanti manuali su vari aspetti della conservazione dei beni
culturali, divenuti dei classici nel loro campo. Il primo di loro, opera
di Harold James Plenderleith (1898-1997) direttore emerito dell’ICCROM,
è stato The Conservation of Antiquities and Works of Art (2a
edizione di A.E.A. Werner, 1971),
riguardante specialmente la scienza dei materiali. Il secondo, sulla
conservazione delle pitture murali, è stato scritto da Paul Philippot,
direttore emerito dell’ICCROM, già professore anche alla Université Libre
di Bruxelles, insieme con Paolo Mora (1921-1998) e Laura
Sbordoni Mora, caporestauratori dell’Istituto Centrale del Restauro di
Roma (Mora e Philippot, 1977). Il terzo manuale, opera di Bernard M.
Feilden, tratta della conservazione di edifici storici (Feilden,
1982). Con riferimento alla teoria di Brandi, è di particolare interesse
il libro di Mora e Philippot, in quanto i concetti contenuti sono stati
sviluppati e sperimentati in diretto contatto con Brandi stesso, in
qualità di direttore dell'ICR, risultanti da un rapporto (1959) del
Comitato di Conservazione Internazionale dell’International Council of
Museums, ICOM. Nella fase di preparazione dello studio sono stati
consultati diversi esperti di differenti paesi per verificare la
pertinenza dei metodi proposti
.
I concetti e la metodologia sviluppati dai Mora e Philippot sono stati
ripresi in una pubblicazione da Marie Cl. Berducou sulla conservazione dei
siti e reperti archeologici di materiali vari (Berducou, 1990).
Lo studio di Mora e Philippot inizia con la
dichiarazione che la conservazione-restauro, prima di essere un’operazione
tecnica sul materiale dell’oggetto, si basa su “un giudizio critico che
mira ad identificare questo oggetto con le caratteristiche proprie, a
definire o mettere in luce i valori o i significati specifici che lo
distinguono e che, nel giustificare la sua salvaguardia, stabiliscono
l’obiettivo ed il cardine delle operazioni tecniche che essa implica.”
(Mora e Philippot, 1977:1). La struttura dello studio stesso è predisposta
in modo che il principio critico di giudizio abbia sempre la precedenza e
stabilisca il contesto per il chiarimento di rilevanti temi tecnici. In
contrasto con l’atteggiamento positivistico del diciannovesimo secolo,
tendente a classificare e separare le arti secondo le tecniche di
produzione, i dipinti murali sono qui considerati rigorosamente in
relazione organica con l’insieme del contesto architettonico, come parte
di un Gesamtkunstwerk (insieme artistico). Ciò si rivela essenziale
dal punto di vista iconografico: tramite l’immagine, la figuratività
qualifica lo spazio architettonico e visualizza l’essenza liturgica e
l’importanza del complesso monumentale. Formalmente, la pittura murale
partecipa all’articolazione della spazialità pittorica, scultorea e
architettonica. Ciascun elemento ha un suo ruolo specifico in tale
complesso e la pittura presenta la capacità particolare di simulare
effetti o di aggiungersi (ad esempio, il trompe-l'oeil) alle
dimensioni scultoree o architettoniche. L’architettura, d’altra parte,
condiziona i dipinti murali con la qualità dello spazio, i colori e la
disposizione dell’illuminazione. Nel restauro è essenziale tener
conto della complessità dei temi, che impone l’esigenza di una
conservazione delle pitture murali in situ, piuttosto che
staccandole e presentandole in un museo, intervento giustificabile solo in
circostanze eccezionali.
Dal punto di vista organizzativo e tecnico, è evidenziata la necessità di
preparare inventari, rilievi e documentazione adeguati prima, durante e
dopo l'intervento, un servizio di controllo e di manutenzione regolari e
la formazione del gruppo professionale responsabile per il restauro. Si
considera inoltre essenziale possedere una buona conoscenza ed una
comprensione specifica dei materiali, delle tecniche usate, delle
condizioni e delle cause di alterazione dei dipinti murali in questione.
Questi controlli ed analisi devono essere estesi all’architettura ed
all’ambiente di cui i dipinti fanno parte; i trattamenti devono essere
calibrati in modo da non causare danni, ma anche per stabilire una base
per una conservazione a lungo termine ed una presentazione ottimale. I
problemi particolari di cui tener conto, ad esempio relativi ai fissativi,
comprendono la capacità di penetrazione e fissaggio, la flessibilità, le
proprietà ottiche, la resistenza a fattori biologici ed agli agenti
atmosferici e la reversibilità.
Le questioni teoriche specifiche sono connesse alla presentazione dei
dipinti murali, al problema della pulitura, al trattamento delle lacune,
all’illuminazione e all’eventuale rimozione dal sito originale. Come tutte
le opere d’arte, le pitture murali possiedono un duplice carattere
storico, il primo dovuto al fatto di essere eseguite in un momento storico
determinato ed il secondo relativo al lasso di tempo trascorso da quel
momento. Alcune delle trasformazioni intervenute col tempo possono essere
ritenute degne di conservazione per il loro valore estetico o storico;
altre possono aver nascosto, alterato o mutilato l’immagine. Mora,
Sbordoni Mora e Philippot ci ricordano che la pulitura e la rimozione di
sostanze che non sono parte del lavoro originale non restituiscono né
ristabiliscono la condizione originale dell’opera; l’operazione permette
semplicemente di rivelare lo stato attuale dei materiali originali (Mora e
Philippot, 1977:325). Nel corso di una conferenza internazionale a
Williamsburg nel 1972, Philippot ha
ribadito che “è un’illusione credere che un oggetto possa essere riportato
al suo stato originale, spogliandolo di tutte le aggiunte posteriori. Lo
stato originale è un’idea mitica ed astorica, buona per sacrificare le
opere d’arte ad un concetto astratto e presentarle in uno stato mai
esistito” (Philippot 1976:372). La formazione della patina, a volte detta
‘patina nobile’, fa parte del normale processo d'invecchiamento dei
materiali e non deve essere confusa
con depositi di sporcizia. Il
trattamento di tale patina non è tanto un problema di chimica, ma di
giudizio critico. Infatti il problema della pulitura è una questione di
gradualità e l’obiettivo dovrà essere quello di “ricercare un equilibrio
d’insieme, attualmente realizzabile, che, tenuto conto dello stato attuale
dei materiali, restituisca il più fedelmente possibile l’unità originale
dell’immagine trasmessa dai suoi materiali nel tempo” (Mora e Philippot,
1977:327).
La pulitura deve essere graduale e sistematica, basata sulla progressività
e sul giudizio storico, con riferimento ad un'intuizione critica dei
risultati previsti. La pulitura è strettamente legata al trattamento delle
lacune, vale a dire alla perdita del materiale costituente l’immagine
(vedere anche Philippot, 1975). In passato tali perdite erano spesso
reintegrate con una pittura di ‘ritocco’, che poteva essere estesa anche
all’originale; questo trattamento è stato parte della tradizione
artigianale ma non può essere ammesso nel restauro moderno che, invece,
esige un’interpretazione storico-critica dell’opera rispetto
all’autenticità. D’altra parte Mora, Sbordoni Mora e Philippot non
condividono il rigido atteggiamento archeologico della ‘conservazione
pura’, rispetto allo stato mutilo di un’opera d’arte né il rifiuto di
considerare l’impatto negativo che una lacuna può comunicare
nell’apprezzamento di un’opera d’arte; pur essendo anch’essa una forma di
presentazione, ignora completamente l’istanza estetica dell’opera d’arte,
la sua principale raison-d'être (1977:348). Gli autori si rifanno
invece alle ricerche di Brandi e della Gestalt-Psychologie
nell’individuare la tendenza della lacuna a ‘produrre figure’ sull’insieme
artistico ed a presentarsi come un'interruzione della continuità della
forma. Il vero problema critico nella presentazione di un dipinto è la
necessità di “ridurre tale disturbo per restituire all’immagine il massimo
della presenza che essa è ancora in grado di realizzare, nel pieno
rispetto della sua autenticità creativa e storico-documentaria” (Mora e
Philippot, 1977:349).
Vi possono essere molti modi per realizzare ciò ed, ovviamente, i problemi
relativi alle superfici dipinte differiscono da quelli degli edifici o
resti architettonici, ceramiche e tessuti. I princìpi di base sono
tuttavia gli stessi. La questione fu affrontata dall’ICR in maniera
sistematica, specie nel periodo seguente al dopoguerra, quando numerose
opere d’arte, compresi i dipinti, avendo necessità di essere salvaguardate
e restaurate. Le lacune sono identificate secondo la loro natura,
profondità, posizione e dimensioni. Il problema minore è rappresentato
dalla ricostituzione della continuità in piccole aree, dove la patina, o
parte dello strato pittorico, sono sbiaditi
o consumati, usando acquarello per dare la tonalità corretta.
Quando la lacuna è più sostanziosa, ma non eccessiva, e la posizione non
troppo critica, si presenta la possibilità di reintegrazione, ad esempio
usando la tecnica del tratteggio, sottili linee verticali che
gradualmente ricostituiscono la continuità perduta nell’immagine. I colori
e le tonalità corrisponderanno agli originali, ad una distanza normale; la
necessaria distinzione è data dall’effetto tratteggiato, individuabile a
distanza ravvicinata. Quando l’unità potenziale è perduta o le lacune sono
troppo estese per giustificare la reintegrazione, o quanto permettere tale
trattamento si rivela troppo risolutivo per la qualità dell’immagine, è
preferibile lasciare le lacune come tali; il loro trattamento sarà tale da
dare il minimo disturbo all’immagine originale contenuta nei frammenti
superstiti. Quando si tratta di dipinti murali, il giudizio critico circa
la reintegrazione dovrebbe fare riferimento all’insieme architettonico di
cui i dipinti fanno parte, circostanza molto diversa dal trattamento del
singolo dipinto.
L’esempio di conservazione e restauro delle pitture murali descritto
fornisce un’idea sull’uso della metodologia basata sulla teoria di Brandi.
Esiste una vasta letteratura su altri tipi di applicazioni. Molti degli
argomenti relativi alla conservazione e al restauro architettonici
dovrebbero, inoltre, essere intesi in un contesto ambientale più
universale, ad esempio la conservazione delle città e dei centri storici,
o la gestione relativa alla conservazione dei siti archeologici e dei
paesaggi culturali. Durante gli anni settanta ed ottanta del Novecento,
questi temi sono stati trattati con attenzione particolare quando, a causa
del rapido sviluppo e della conseguente distruzione di tessuti ed ambienti
storici, si è verificata una crescente consapevolezza ecologica, in favore
della conservazione dei beni esistenti, con l’accento posto sullo
sviluppo sostenibile, e d’una
maggiore collaborazione, ricerca e formazione di specialisti
internazionali. Alcuni effetti di questa evoluzione sono stati riassunti
da Bernard Feilden nel suo Conservation of Historic Buildings,
pubblicato nel 1982. I contributi personali
di Feilden si riferiscono alla sua lunga attività in Gran Bretagna,
essendo stato l’architetto responsabile di maggiori cattedrali a York,
Norwich ed a St. Paul di Londra, nonché responsabile per la conservazione
e il recupero di un gran numero di aree ed edifici storici, come a Norwich
e Chesterfield. Come direttore dell’ICCROM, ha avuto modo di
confrontare le sue esperienze professionali in un contesto internazionale,
in Italia, nei paesi dell’Asia e del Medio Oriente. Nella prefazione al
suo libro, Feilden fa notare che la conservazione degli edifici storici
consiste in “saggia gestione dei beni, sano giudizio e un chiaro senso
dei limiti” (Feilden, 1982:v).
Nell’introduzione, presenta un panorama che va dalla definizione di un
edificio storico e delle cause di deterioramento alla conservazione, il
cui significato è definito come segue:
Conservazione è l’azione intrapresa a prevenire il
deterioramento. Riguarda tutte
le azioni che prolungano la
vita del nostro patrimonio culturale e naturale, dovendo l’oggetto essere
presentato a coloro che usano e guardano agli edifici storici con
ammirazione per il messaggio artistico ed umano che tali edifici
possiedono. L'intervento minimo
valido è sempre il migliore;
se possibile, l’intervento dovrà essere reversibile e non pregiudicare i
possibili interventi futuri. Il fondamento della conservazione degli
edifici storici è stabilito dalla legislazione, mediante la catalogazione
e annotazione di edifici e ruderi, con ispezioni regolari e
documentazioni, e tramite i piani urbanistici e l’azione conservativa (Feilden,
1982:3)
Feilden non tenta di scrivere una teoria della conservazione; il suo è un
manuale pratico di guida agli architetti, ispettori e costruttori. Non di
meno, fornisce un modello utile nel quadro dello sviluppo della
conservazione-restauro nel periodo del dopoguerra. I temi trattati sono
concentrati sugli argomenti tecnici, gli aspetti strutturali degli edifici
storici, le cause di deterioramento dei materiali e della struttura ed il
lavoro dell’architetto conservatore, le
tecniche di monitoraggio, ispezione e riparazione. Al tempo stesso, il
libro considera in modo pratico e sistematico quei temi che riflettono
anche l’approccio critico e le metodologie illustrate da Brandi e dagli
esempi di conservazione delle pitture murali descritti prima. Feilden
raccomanda di definire le alternative pratiche d’intervento, prima di
provarle criticamente alla luce della ‘teoria’ (intesa qui come ‘ipotesi’),
per decidere quale sia la soluzione ‘meno cattiva’. Questa procedura
permette di giungere a decisioni realistiche. La conservazione degli
edifici storici pertanto “costituisce una disciplina
inter-professionale che coordina una varietà di metodi estetici, storici,
scientifici e tecnici. La conservazione è un campo in rapido sviluppo e,
per la sua natura, è un'attività multidisciplinare di esperti, ciascuno
operante nel rispetto dei contributi altrui, concorrendo a formare un
gruppo efficace” (Feilden 1982:22) Questo, in breve, può essere inteso
come il principio moderno della conservazione degli edifici storici, nel
rispetto per l’enorme complessità del compito, considerando non solo la
varietà del patrimonio e delle culture implicate, ma anche le questioni
relative alle società moderne e tradizionali.