ASSOCIAZIONE AMICI DI CESARE BRANDI

 

NEWS  >>   RASSEGNA STAMPA  2007-05-30

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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2007-05-30

 

Anticipazione/ Un convegno sul grande critico d’arte

Cesare Brandi uomo impolitico

 

di Lucio Villari

in «La Repubblica», 30 maggio 2007, p. 42

 

 

Anche per Cesare Brandi gli anni Trenta sono stati decisivi. Lo furono per gli artisti e gli intellettuali dell’Europa e delle Americhe e dunque anche per gli italiani che in quel «disonesto decennio», come in una poesia del ’39 lo definì Auden, vissero la stagione particolare del fascismo trionfante. Il giovane Brandi si formò, come studioso e autorevole protagonista della cultura operativa e protettiva del patrimonio artistico, in quella stagione. Che in Italia fu un tempo fortemente politicizzato e coinvolgente e, per molti coetanei o più vecchi di Brandi, una occasione di partecipazione alla vita pubblica e agli interessi collettivi del paese. Ma fu autentica questa partecipazione? Può essere in qualche modo paragonabile, seppure con intenzioni diverse e opposte data la presenza di un regime autoritario, all’impegno politico, a tutti noto, degli uomini di cultura americani, francesi, inglesi, spagnoli, tedeschi dell’esilio? Quell’impegno ebbe un segno democratico, ma coinvolse anche conservatori illuminati. Perché osservando le immagini di coloro che facevano parte dell’Accademia d’Italia, sorta nel l929, all’alba del decennio, si ha quindi il sospetto di una loro perplessità e di una mistificazione? Come se, ad esempio, Enrico Fermi, Luigi Pirandello, Emilio Cecchi, Massimo Bontempelli, Mascagni, Marinetti, Marconi, cioè scienziati e scrittori amati e rispettati dagli italiani, fossero, in feluca e spadino, non se stessi ma una controfigura e dessero di sé una immagine di persone lusingate certo e protette dal regime, ma sostanzialmente disinteressate e inautentiche. La risposta non è scontata e va riferita alle singole persone e alla loro storia privata. Nel caso di Brandi, poi, neanche testimoni contemporanei della sua personale vicenda riuscirono a capire quali fossero state le ragioni politiche della sua carriera e del suo prestigio in quegli anni così «interessanti». Nel 1945 l’Alto commissario per l’epurazione era costretto a chiedere al ministero della pubblica istruzione lumi per capire cosa era successo («Prego farmi conoscere se la nomina - avvenuta nel 1936 come ispettore alle antichità e belle arti - fu giustificata da meriti eccezionali, da meritata fama, che Brandi godeva incontestatamente, oppure fu effetto di arbitrio compiacente del Ministro del tempo»). Per inciso il ministro dell’Educazione nazionale era il «quadrumviro» Cesare Maria De Vecchi. Povero Alto commissario. Come avrebbe potuto rispondere il ministro - lo stesso problema, ma con qualche aggravante, si porrà per l’amico di Brandi, Giulio Carlo Argan, con carriera e cultura analoghe - a questa impossibile ma onesta richiesta?

Eppure, il problema storico esiste ed è importante perché si tratta di identificare il compromesso etico-politico tra intellettuali e regime che non annulla certo il valore delle opere compiute, semmai ne drammatizza la verità esistenziale («Duce, scriveva Bontempelli a Mussolini il 15 ottobre 1930 in una lettera finora inedita, vi confesso candidamente che il seggio all’Accademia d’Italia toglierebbe la mia vita al disagio grave in cui si trova da anni...») e quindi ne spiega meglio i contenuti reali.

E proprio Argan, nella prefazione alla raccolta di scritti di Brandi, Terre d’Italia, edita nel 1991, scriveva: «Uomo di interessi assai vasti, guardava anche ai fatti politici. In essi Brandi non amava certamente entrare e partecipare con proprie precise posizioni; ma, al contempo, non poteva non avvertire che tra le componenti della realtà sociale esiste anche la vita politica, e che se non si tiene conto della vita politica, del passato politico, del presente politico, è difficile capire, avere una nozione esatta di ciò che si sta vivendo». Mi pare che il giudizio di Argan sia molto chiaro: Brandi non aveva interessi politici e forse non era incuriosito neanche dagli eventi eccezionali che la politica produceva. Le lettere inedite scambiate da Brandi con artisti, scrittori, critici, a partire proprio dagli anni Trenta, ora pubblicate per conto della Soprintendenza di Siena e Grosseto, confermano che per Brandi non pare sia accaduto nulla di rilevante in quegli anni difficili che videro la guerra di Spagna, la guerra d’Etiopia, l’Italia imperiale, la seconda guerra mondiale, il crollo del fascismo, la Resistenza. Nulla che trapeli dalle lettere, che lo abbia sfiorato o abbia interferito con il suo viaggiare tra le idee e le cose dell’arte, del paesaggio, con la fisicità del suo contatto con il mondo, con l’affascinante elaborazione concettuale e narrativa di questo contatto.

Vorrei spiegare questi silenzi ripensando quegli anni, guardandoli, se è possibile, anche con gli occhi dei protagonisti, degli intellettuali sulla scena, ma leggendo anche le parole che Alberto Mondadori premise, nel 1948, al Diario di un borghese di Ranuccio Bianchi Bandinelli, anche lui, come Brandi, Argan e molti altri, partecipe delle contraddizioni tra cultura e fascismo ma con la consapevolezza del dramma vissuto dall’Italia e dagli italiani. «Fu una generazione - notava Mondadori - fra le più tormentate dei tempi moderni: ma anche fra le più privilegiate, perché gli uomini degni di questo nome, i quali tra le due guerre mondiali hanno dovuto sottoporsi a tutto un processo di revisione di antiche formule e di valori tradizionali, non possono non aver tratto conseguenze di portata capitale sui problemi sociali, morali e politici che i rivolgimenti determinatesi nella prima metà del nostro secolo hanno posto dinanzi alle coscienze con disperata urgenza». Nel caso del «borghese» Bianchi Bandinelli queste conseguenze capitali erano state in fondo previste, secondo il Diario, già nel ’36: «Leggo raramente quanto scrivono questi scrittori rappresentativi del regime, anche se dimostrano intelligenza, ma quando dicono di fare, sotto sotto, dell’opposizione, rimango dell’opinione che farebbero meglio, se sono davvero contrari, a contenere le loro ambizioni e a scrivere senza pubblicare...». Brandi, in quel momento non era lo scrittore che amiamo leggere e rileggere (nel ’36 era provveditore a Udine e si apprestava a seguire De Vecchi divenuto governatore a Rodi), ma era uno studioso la cui inespressività politica poteva anche essere una forma di opposizione.

E questo, fino a quando Giuseppe Bottai non entrò più direttamente nella scena della cultura attiva nazionale, nei territori della creatività, e in quello, dove ha lasciato traccia più profonda, della tutela dei beni artistici e ambientali (e Brandi dirigendo l’Istituto del restauro ne fu una struttura portante) con dei programmi e anche con l’obbiettivo, per dirla con Alberto Mondadori, di una «revisione di antiche formule e di valori tradizionali». Necessaria questa revisione, nel pensiero di Bottai per dare al suo fascismo «critico» un senso e un orientamento più problematici. Era la sua privata utopia fin dal 1924: «Il fascismo è una rivoluzione di intellettuali. Dico più esplicitamente: è una rivoluzione intellettuale». Una utopia ripresa nel 1932 in un numero speciale del Popolo d’Italia dedicato al decennale della Marcia su Roma. In un articolo si parla del fascismo come «liberazione intellettuale» e della «sua poderosa opera di revisione di tutti i valori ideali».

Certo, l’inquietudine di Bianchi Bandinelli aveva qualche fondamento se persino un accademico d’Italia come Lucio d’Ambra, lo scrittore tra i più letti del suo tempo, che aveva nel 1913 scoperto Proust, poteva confessare nel 1934 al suo diario: «L’Italia letteraria è questa: senza giudici, senza guide, con qualche demolitore per distruggere, senza la coscienza letteraria per rivalutare, per edificare...».

 

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Pagina creata il 30-05-2007 | Aggiornata il 30-05-2007