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Rassegna stampa
2006-02-21
Il patrimonio di Brandi.
Cent'anni fa nasceva il grande storico dell'arte.
Molti convegni ne rievocano la figura.
di Fabrizio D'Amico
in «La
Repubblica», 21 febbraio 2006, p. 51.
Fu anche studioso del restauro e spaziò dal Trecento ai
contemporanei.
Ma un contributo decisivo lo diede alla tutela dei
centri antichi.
Ricorre quest'anno il centenario della nascita di Cesare
Brandi (Siena, 8 aprile 1906), al quale saranno dedicati molti convegni e
da ultimo, in autunno, quello internazionale di studi, promosso
dall'Istituto Centrale del Restauro di Roma e ospitato dai Lincei, dal
titolo «Brandi oggi». E che eredità egli abbia lasciato, quanto vasta e
profonda, si percepisce oggi forse ancor meglio di quanto non fosse
possibile alla fine degli anni Ottanta di quel secolo che, quando morì al
termine d'una malattia dilaniante, egli aveva percorso quasi intero,
segnandone molti dei cruciali passaggi della cultura italiana, artistica
ma non solo. Oggi, dunque - oggi che tanti suoi scritti, di diversa
natura, sono stati nuovamente raccolti e pubblicati, in Italia e altrove
nel mondo - ancor meglio si ha nozione di quell'ampiezza di sguardo che
gli consentì di non mancare a nessuno degli appuntamenti fondamentali del
suo tempo: fossero essi destinati al nuovo, più consapevole sguardo che si
rivolgeva all'antico, o alla contemporaneità.
Brandi è stato filosofo delle arti di prima grandezza
(Gianfranco Contini, mezzo secolo fa, diceva del Carmine o della
Pittura come esso fosse da considerare «il libro di estetica più
importante uscito dopo il Croce»); teorico e storico dell'arte; scrittore
e poeta; insegnante e polemista. E altro ancora: fra cui è da ricordare
almeno la dimensione di avvertito custode dell'integrità delle memorie
storiche nel paesaggio urbano; dimensione che sottolinea Massimiliano
Capaci nell'introdurre un bel libro recentemente edito dagli Editori
Riuniti, Il patrimonio insidiato, che raccoglie scritti
riconoscendo allo studioso una «minuziosa conoscenza, per così dire,
dispersi sulla conservazione e la tutela del patrimonio artistico,
geoartistica di questo paese, senza possibili paragoni nel secolo appena
trascorso», e mettendone in evidenza un settore della sua attività forse
sino ad ora meno sottolineato, e importante. (A fronte di tutto ciò, sia
detto davvero fra parentesi, sono venute rare opinioni dissonanti sulla
critica brandiana: come quella di chi, redigendo alcuni anni or sono le
schede di catalogo di una mostra sull'opera tarda di Morandi, ha parlato
di quella brandiana come di «una pagina dalla lingua tipicamente impervia,
fitta di similitudini che complicano il fluire del ragionamento». Ma ciò,
ad evidenza, fa torto solo a chi quell'incomprensibile giudizio ha avuto
la presunzione di pronunciare).
Di Brandi sarà dunque possibile scegliere di leggere cose
diversissime, come Elicona - composto dal citato Carmine,
dall'Arcadio o della Scultura, dall'Eliante o dell'Architettura,
dal Celso o della poesia - dove il pensiero estetico si va formando
nell'insolita forma dialogica; o la Teoria generale della critica,
ove quel pensiero è offerto alla sua matura stagione; o il Disegno
della pittura italiana, poi il Disegno dell'architettura,
limpidi e piani come lezioni impartite ai più giovani: o il fondamentale
Le due vie (credo purtroppo mai più ripubblicato dopo le prime,
introvabili edizioni del '66 e del '70), il più denso forse fra i suoi
testi teorici, che porta a perfezione il pensiero estetico maturato già in
Segno e Immagine, primo avviso della teoria di Brandi rivista alla
luce dei più recenti frutti della linguistica strutturale e della
semiologia.
O la Teoria del restauro, forse il più celebre dei
libri brandiani, tradotto quasi in ogni lingua, e ovunque nel mondo
tuttora normativo per un moderno atto di risarcimento possibile di
un'opera d'arte. Ma anche, accanto a tutto ciò, gli avvincenti libri di
viaggio: in terre prossime, amatissime da Brandi, come la Puglia o
l'Umbria; o remote come la Persia o l'India.
Attraverso ognuna di queste letture, sarà possibile a
ciascuno scoprire il 'proprio' Brandi. Ragiono oggi cosa sia stato per me
Brandi (anzi 'il professore', come usano ancor oggi chiamarlo i suoi
allievi). Credo che la parte, per me, più importante di lui mi sia stata
trasmessa dalle sue lezioni, ascoltate nell'aula dell'istituto di storia
dell'arte dell'Università di Roma.
Lezioni piene di dottrina, certo; ma soprattutto
d'entusiasmo e di passione per quanto andava commentando, e di
insofferenza per letture, esercitate sulle stesse opere che andava
commentando, che egli giudicava irrilevanti (ad esempio per tutte quelle
che implicassero una valutazione eccessiva degli aspetti contenutistici
del dipinto, o della scultura). La realtà pura dell'opera d'arte, chiusa e
tetragona a ogni altra interlocuzione che non fosse la ricezione che di
essa faceva la coscienza del riguardante intenzionandola come tale (e per
la quale essa si segregava dal mondo, e da 'flagranza' si faceva 'astanza'),
e il nitore assoluto di questa valenza, è quanto a Brandi sembrava
essenziale alla stessa esistenza dell'opera, estrapolata dal flusso
dell'esistente in grazie ad un duplice atto di volontà, pronunciato una
prima volta dall'artista, e confermato poi dal fruitore. Semplice, quasi
assiomatico concetto, si dirà: ma tale, ove fosse stato accolto e serbato
a fondamento della specificità della forma dell'opera d'arte, da orientare
in modo profondamente diverso molta parte dell'ulteriore sviluppo
dell'arte attuale.
Nonostante ciò, molto hanno dato, né solo sul piano
storiografico, gli scritti sull'arte contemporanea di Brandi. Quelli, in
Italia anticipatori, su Picasso, e, fra molti altri, quelli sulla scultura
italiana - da quella fra le due guerre fino a Leoncillo, e a Pascali;
quelli (che non ebbero la tempestività dei testi di Emilio Villa, ma una
perspicuità, infine, assoluta) su Burri; quelli su Morandi, scalati dal
1939 in avanti, fino alla morte del pittore. Perfetti, e infatti
amatissimi da Morandi, che sempre considerò Brandi il suo interprete
maggiore.
Consentiamoci di rileggere qui un passo di quella prosa ('impervia'?):
«A Grizzana, cosa si poteva rinvenire in più di quel poco, di quel minimo
che Morandi ne ha sottratto, per i suoi paesaggi, che si direbbero fatti
di niente, di quanto di più comune si possa incontrare dovunque, senza
bisogno di scomodarsi a salire fino a Grizzana?». Un breve passo ove, in
poche righe, è adombrata insieme una parte rilevante della poetica di
Morandi (sottrarre al flusso esistenziale, restituendolo in termini di
forma, l'oggetto più comune e più banale), e dimostrata tutta l'attenzione
che Brandi riserva al ritmo interno, evocativo e magico, del suo
periodare, qui aperto e concluso da quel 'a Grizzana' che già suscita, per
misteriosi rimandi onomatopeici, quel sentimento di aspra essenzialità di
cui tanto partecipa l'arte di Morandi, e in particolare il suo paesaggio
negli anni di guerra.
Un'indicazione, in ultimo, per chi voglia riscoprire, a
partire dall'occasione di questo anniversario, Brandi. Rilegga le pagine
scritte su di lui da un allievo carissimo, e tanto oggi rimpianto, Michele
Cordaro, prematuramente scomparso alcuni anni or sono, dopo aver diretto
per anni quell'Istituto Centrale del Restauro che Brandi aveva fondato,
con Argan, nel 1939. Almeno, rilegga le pagine pubblicate nella prefazione
della riedizione di Pittura a Siena nel Trecento (Einaudi, 1991) o
le altre, poche e illuminanti, a commento dell'uscita, sempre presso
Einaudi, della Teoria generale della critica. Le troverà piane,
puntuali, preziose, come ogni cosa scritta da Cordaro.