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Rassegna stampa
2006-03-14
Festeggiamenti per Cesare Brandi,
nato l'8 aprile di cent'anni fa
di
Marcello Barbanera e Massimo Carboni
in «Il
Manifesto», 14 marzo 2006, p. 12
Oggi la prima tra le iniziative programmate in Italia
per ricapitolare il
fondamentale contributo di Cesare Brandi alla storia dell'arte e
soprattutto alla teoria e alla tecnica del restauro, che elaborò fra il
1942 e il 1948, in un'epoca marcata dall'urgenza di intervenire sui
monumenti danneggiati dalla guerra. Ma gli dobbiamo, tra l'altro,
godibilissimi resoconti degli stupori indotti dai suoi viaggi, e versi di
impegno morale e civile.
Al crocevia tra arti visive e poesia
di Marcello Barbanera
«Sono nato in una strada bella nobile e buia, in un vecchio palazzo con le
campanelle di ferro battuto che, di notte, i passanti amavano di fare
tintinnare contro il muro. E il suono argentino si spandeva nel
silenzio... questo è il ricordo più lontano: e mi stringeva il cuore. Per
Siena ho avuto sempre un insieme di amore e di intolleranza». Così, pochi
anni prima della sua scomparsa, avvenuta nel 1988, Cesare Brandi rievocava
i luoghi dell'adolescenza che, per i casi della vita, furono gli stessi di
un altro grande storico dell'arte italiano, Ranuccio Bianchi Bandinelli.
Brandi era nato a Siena l'8 aprile del 1906, la sua famiglia possedeva una
villa poco fuori città - a Vignano, cui si sarebbe ispirato Stendhal alla
fine della Chartreuse per il palazzo della Sanseverina; basta una
breve passeggiata tra le colline del Chianti per raggiungere la villa di
Geggiano, dove i Bianchi Bandinelli trascorrevano l'estate: «Il mio primo
amico» - ricordava Brandi - «Ranuccio Bianchi Bandinelli... fu il grande
evento della mia prima gioventù: si era sempre insieme, anche se ci
corressero sette anni tra me e lui e lui era archeologo». In seguito tra i
due restò l'amicizia degli anni giovanili, ma un solco via via più largo
si aprì tra le loro concezioni della storia dell'arte.
Dopo la laurea in giurisprudenza, secondo la tradizione familiare, Brandi
si recò a Firenze per assecondare il suo interesse per la storia
dell'arte: si laureò nel '28 con una tesi su Rutilio Manetti, Francesco
Vanni e Ventura Salimbeni. Ritornato a Siena, sotto la protezione di Pèleo
Bacci lavorò alla monografia su Manetti, compiendo così la scelta
coraggiosa di dedicarsi a un autore marginale, che fu attivo allo
schiudersi dell'età barocca, piuttosto che a un pittore della consolidata
tradizione medievale e quattrocentesca; una ricerca fuori dalla sfera dei
connoisseurs alla Bernard Berenson che, dalla non lontana villa «I
Tatti», regnava incontrastato sui destini della storia dell'arte e che non
perdeva occasione per parlar male di Brandi.
A Siena Brandi legò il suo nome anche alla costituzione della Pinacoteca
nazionale - una delle più ricche collezioni di primitivi italiani - con
quadri provenienti in gran parte dalla Galleria dell'Istituto provinciale
di belle arti, inaugurata nel 1932. L'anno successivo, divenuto ispettore
alle Belle Arti, iniziò un percorso che, professionalmente, lo allontanò
definitivamente dalla sua città: prima a Bologna, poi a Roma, Udine, Rodi,
Ferrara e ancora a Roma con il compito di realizzare l'impresa cui, più di
tutte, sarebbe rimasto legato il suo nome, l'Istituto Centrale del
Restauro, concepito già da Giulio Carlo Argan nel 1938 e inaugurato nel
1941, e che ancora oggi costituisce un vanto italiano. Brandi maturò le
sue convinzioni teoriche sul restauro fra il 1942 e il 1948, epoca marcata
dall'urgenza della ricostruzione che sui giornali dell'epoca faceva
divampare polemiche sui vari modi di intervenire sui monumenti danneggiati
dalla guerra. All'epoca esistevano metodi di intervento, ma non una vera e
propria metodologia, né una teoria del restauro cui riferirsi: fu proprio
dall'esigenza di fare fronte a queste lacune che nacquero i Fondamenti
teorici del restauro di Brandi, da cui egli sviluppò la sua Teoria
del restauro. Era necessario impostare i principi teorici e
concettuali di una pratica i cui ultimi fondamenti risalivano al manuale
di Giovanni Secco Suardo del 1866, e se oggi non è più necessario
ridiscutere tali principi e se sappiamo che ogni restauro rappresenta un
caso particolare, questa consapevolezza non sarebbe stata resa possibile
senza le basi poste da Brandi. Viaggiando ad Atene negli anni '60, di
fronte al tentativo di anastilosi del Partenone, Brandi scriveva: «Un
monumento ce lo consegna la storia, e qualsiasi intervento che ne cambi
l'aspetto deve essere giustificato da superiori ragioni di estetica o di
conservazione. Ma tali ragioni, ed il modo col quale vengono attuate, non
devono servire a cancellare la storia, e cioè il tempo che è passato sul
monumento»; oggi che sull'Acropoli si sta ricostruendo integralmente il
Partenone, dopo aver spazzato via dalla rocca tutto ciò che non era
«grecità classica», le parole di Brandi suonano come un monito del tutto
inascoltato.
Nell'ambito della critica d'arte Brandi è figlio del suo tempo: superate
le esperienze crociane, nel dopoguerra sembrò piuttosto allergico all'uso
della semiotica post-saussuriana, allo strutturalismo, alle
interpretazioni psicoanalitiche e all'iconologia warburghiana nella storia
dell'arte - non diversamente da Bianchi Bandinelli, che le considerava
tendenze alla moda - e puntò invece alla interpretazione dell'opera d'arte
che, pur inserita nel contesto storico, deve essere isolata nella sua «astanza»
o presenza. Non che la semiotica e l'iconologia warburghiana debbano
essere prese come vangelo, ma è pur vero che l'astanza brandiana sembra
tanto un tentativo di dare una spolveratura storicistica alla concezione
idealista.
Brandi però, non sembrava avere conosciuto quella tormentata tensione tra
molteplicità e unità, che portò, invece, uno studioso come Bianchi
Bandinelli a imbrigliare la propria natura di uomo romantico in una
supposta razionalità identificata nel comunismo. Coltivava la pluralità
degli ideali e dei valori con passione, osservava e accoglieva tutte le
voci che la vita parlava, evitando di dare un'unica risposta alle domande
che si pongono all'uomo moderno: il che, naturalmente, non lo salvaguardò
da errori di valutazione storico artistici, né da certe fumoserie nella
sua critica d'arte, e però lo resero meno dogmatico. Ma questa parabola
professionale e accademica, sebbene prestigiosa, non renderebbe giustizia
della sua attività multiforme se si tralasciasse di menzionare lo
scrittore e il poeta. Brandi ha praticato un genere letterario, quello del
libro di viaggio (si pensi a Città del deserto, Viaggio nella
Grecia antica) che in Italia conta pochi esempi: bisognerebbe fare
riferimento, per lo stile, ai nomi di Emilio Cecchi e per la parola
evocativa, a quelli di Giovanni Comisso, Giuseppe Raimondi, Bruno Barilli
e, più recentemente, di Alberto Arbasino, se si volesse trovargli degni
compagni, autori tutti accomunati da un cosmopolitismo e da una vivacità
intellettuale che li rende casi anomali in Italia. Nonostante avesse
pubblicato versi fin dagli anni giovanili - il primo libro, titolato
Poesie era del 1935 e la raccolta Elegie con cui rendeva
evidente omaggio a Rilke del 1942 - Brandi provò grande amarezza nel non
essere riconosciuto come poeta: «La poesia era una cosa seria. Le mie
prime pubblicazioni sono state di poesia», raccontava nel 1981 a
Elisabetta Rasy su Panorama). Per i suoi versi transita una
coscienza morale e civile quasi pariniana e nel contempo essi sono saturi
di creazioni di immagini che sembrano discendere dalla pittura
post-impressionista del primo Novecento («Tiene l'estate la sua testa
sulla mia spalla»), che non lo fa sfigurare tra i poeti italiani del primo
Novecento.
[per leggere il secondo articolo, di Massimo Carboni,
clicca qui]