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Rassegna stampa
2006-03-14
Festeggiamenti per Cesare Brandi,
nato l'8 aprile di cent'anni fa
di
Marcello Barbanera e Massimo Carboni
in «Il
Manifesto», 14 marzo 2006, p. 12
Oggi la prima tra le iniziative programmate in Italia
per ricapitolare il
fondamentale contributo di Cesare Brandi alla storia dell'arte e
soprattutto alla teoria e alla tecnica del restauro, che elaborò fra il
1942 e il 1948, in un'epoca marcata dall'urgenza di intervenire sui
monumenti danneggiati dalla guerra. Ma gli dobbiamo, tra l'altro,
godibilissimi resoconti degli stupori indotti dai suoi viaggi, e versi di
impegno morale e civile.
Grandi viaggi al di qua dell’avanguardia
di Massimo Carboni
Sarà un bene, sarà un male, ma è certo che degli intellettuali come Brandi
si è ormai perso lo stampo. La poliedrica vastità delle sue attitudini e
competenze (oltre alle arti visive, la poesia, la filosofia, la musica e,
perché no, il «saper vivere») testimonia della sua appartenenza elettiva a
una generazione europea formatasi attraverso un’educazione multiforme e
versatile. La fondazione e la prima direzione dell’Istituto Centrale del
Restauro (una delle nostre pochissime istituzioni che ancora all’estero ci
invidiano) indicano, per di più, la sua capacità strategico-operativa di
azione culturale. Eclettico umanista, ma al contempo capace di memorabili
e definitive intuizioni storico-critiche, di complessi affondi teoretici,
di «sistemazioni» (quella sul restauro) che segnano un prima e un dopo.
Anomalo, atipico, eslege. Fu sicuramente «abile», ma non fu mai un
«arruolato». Il solo «arruolamento» che sopportasse o gli si confacesse
era quello a una classe di cui lui fosse l’unico membro. Amava
l’originalità, la qualitas singolare: delle opere, delle persone,
delle cose. Il fatto stesso che egli possa annoverarsi tra i pochissimi
studiosi ad avere approntato lungo tutto il suo itinerario, dal Carmine
o della Pittura (1945) a Teoria generale della critica (1974),
una terminologia di personale conio la dice lunga sull’impronta
inconfondibilmente autorale e in qualche modo «istitutiva» della sua
ricerca. Con Argan, Brandi (ed è per questo che si distanzia anni luce dai
Longhi e dagli Zeri) è stato tra i pochissimi a riconsegnare dignità
filosofica e speculativa all’analisi delle arti visive. Ma questa
propensione teorica l’ha impressa al suo lavoro sempre collocandosi sul
fronte interno dell’arte, partecipando alle sue vicissitudini. Dai Senesi
a Burri, affronta il problema della qualità individuale dell’opera, che il
filosofo, il semiotico per definizione e per principio elude.
Fine teoreta, imprescindibile figura dell’estetica europea del secondo
Novecento, Brandi fu allo stesso tempo formidabile lettore dell’immagine
singola, concreta, della facies «flagrante» e sensuosa dell’opera.
Se si perde il nesso tra questi due poli, si perde la verità di Brandi.
Con la modernità artistica ebbe un rapporto difficile e talvolta
conflittuale. Non amò le avanguardie, specialmente nei loro esiti estremi.
Sostanzialmente, arrivava fino a Burri, prima negato poi (attraverso
dichiarazioni autocritiche di grande onestà intellettuale) accettato e
memorabilmente interpretato. Espresse le sue inappellabili critiche sullo
scadere degli anni Quaranta, nel grande saggio conservatore su La fine
dell’avanguardia. Anche se ciò non gli impedì, nello stesso testo, di
elaborare nozioni anticipatrici come quella sulla «perdita del futuro», di
sorprendente attualità: (ri)leggere per credere. La sua mancata adesione
all’avanguardia (ma non esageriamo, «salvava» sempre i singoli, grandi
artisti) derivava dal suo sistema teorico. Per Brandi, c’è arte soltanto
laddove la «realtà esistenziale», concreta e flagrante, era superata e
sublimata nella realtà pura (in seguito ribattezzata «astanza») di
un’immagine, di una forma totalmente e definitivamente scissa
dall’esistente. Come poteva dunque aderire a un orizzonte artistico ove
l’oggetto e il dato bruto, il vissuto e la materia erano e sono
mostrati-esposti-«rivendicati» come tali, immessi in cornici formali tanto
labili quanto effimere? Ma di Brandi stiamo parlando, non di un qualsiasi
critico «militante». E allora basta andare a rivedersi Le due vie
(che qualche editore di primo piano dovrà pur decidersi a ripubblicare) o
Teoria generale (uscita in seconda edizione nel 1998) per
riflettere su quanto della migliore cultura moderna passi nella sua opera.
Dalle riletture kantiane fatte alla luce dell’amato Heidegger alla
fenomenologia di Husserl e Sartre; dalla semiotica (nell’incompletezza
della sua adesione, egli ne rivelava in anticipo le promesse poi
puntualmente mancate) al post-strutturalismo di Derrida (del quale si
annette i motivi concettuali già «previsti» dal proprio plesso
filosofico-interpretativo). Per queste e per tante altre ragioni,
continuare a ricordare Cesare Brandi come un semplice storico dell’arte e
teorico del restauro, più che una semplificazione è una vera e propria
idiozia. Anche perchè – last but not least – ci sono i formidabili
libri di viaggio (tutti meritoriamente ripubblicati dagli Editori
Riuniti): da Città del deserto a Verde Nilo, da Budda
sorride a Viaggio nella Grecia antica, da Diario cinese
a Terre d’Italia (di imminente riedizione da Bompiani).
Straordinari, godibilissimi; da mettere in valigia per primi,
all’occasione. Sono viaggi scanditi dai primi anni Cinquanta fino a che la
salute glielo ha permesso. Cioè proprio a cavallo tra l’ultima possibilità
di cogliere l’integrità culturale, paesaggistica, antropologica delle
terre visitate, e l’incipiente modernizzazione tutta calcolo e profitto
corredata dagli intruppamenti-intasamenti turistici formula tutto-compreso.
Il «tutto compreso» offerto da Brandi era ed è ben diverso: un’alchimia
forse irripetibile di erudite sintesi storico-artistiche e di osservazioni
acute, squisite (e rispettosissime dell’altrui credere e vivere: che
tristezza sottolinearlo «a contrasto » con l’oggi) sulle abitudini e i
costumi locali, sulla botanica (ebbene sì) e sulle stratificazioni sociali
(e storiche: all’ultimo capitolo, intitolato «Maomettani e cristiani» di
Città del deserto – 1958! – c’è da restare a bocca aperta). E poi i
cibi: piccoli, preziosi trattati di filologia culinaria. Brandi
gelosamente custodisce e accortamente si concede il piacere squassante
della sorpresa, dell’incanto improvviso: di fronte al tramonto nel deserto
o alle porte di Persepoli, a Otranto o a Palmira. Ma il più, naturalmente,
è che ce lo sa comunicare. La sete di conoscenza è verificata in proprio,
il sapere è intrecciato al vissuto, la teoresi all’esperienza. È forse
questo il significato riposto di quel suo umettarsi e muovere le labbra –
come un’ape che succhi il polline da un fiore – all’incontro corpo a corpo
con l’opera. Un gesto di deliquio estetico segretamente còlto da Fabio
Sargentini – suo compagno di viaggio in India – che poi ne scrisse
introducendo la riedizione di Persia mirabile: l’astanza –
concetto-cardine della filosofia brandiana dell’arte – «era un coup de
foudre in piena regola!». Ma Brandi scrittore in viaggio ci offre
anche un viaggio nella sua scrittura. Sontuosa, tesa e insieme sciolta e
colloquiale, con apici di sferzante, epigrammatica ironia:
sull’immancabile firma italiana sul monumento, quel «Forti Aldo, col suo
nome dietro al cognome così come lo riscrivo a sua vergogna», o sugli
archi a neon della festa di Sant’Agata a Catania, «fatti a graffa,
sgradevoli come la firma di un ragioniere».
[per leggere il secondo articolo, di Marcello Barbanera,
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