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Rassegna stampa
2006-04-09
Brandi, viandante dell’arte e del mondo
di Gian Luigi Verzellesi
in www.ilgiornaledivicenza.it , 09
aprile 2006
Nel centenario della nascita, la sua figura di critico e storico
giganteggia nel panorama del Novecento per competenza, rigore e acume
Estro e sapienza, arguzia e sottigliezza in un "occhio di lince" al
servizio della cultura
Per rievocare Cesare Brandi (Siena 1906- Siena 1988), nel centenario della
nascita, si è poi costituito un comitato nazionale, presieduto da Antonio
Paolucci; si sono aperti e si apriranno convegni, non soltanto in Italia,
e rassegne d'arte a Roma, Bologna, Siena, Città di Castello, Bagheria e a
Vignano (nella villa donata dallo studioso senese al Comune di Siena).
Iniziative felici, doverose e promettenti: specialmente se riusciranno a
mettere nel giusto risalto la figura poliedrica di Brandi, così come si è
progressivamente rivelata nel corso d'una ricerca laboriosissima, sorretta
dall'intento "irriducibile" (così lo definiva Lionello Venturi) di
esaminare e riesaminare un tema cruciale ricorrente, che riguarda
l'"opposizione dura, latente ma costante, fra la vera humanitas e la
civiltà moderna".
Queste parole di Brandi forse bastano a rilevare la sua affinità a quella
cerchia d'intrepidi pensatori del dissenso (come Benda, Huizinga, S. Weil,
Bernanos, E. Zolla, Lorenz, Popper...) che hanno preso le distanze dagli
intellettuali "organici" d'ogni specie per continuare la ricerca sulle
vie, strette e difficili, che possono consentire l'uscita dalla tendenza
all'inerzia conformistica in cui cresce la filosofia della futilità, sorda
ai "diritti umani" e incline a moltiplicare "i bisogni artificiali" e "i
consumi di moda".
Di questa filosofia, imperversante da decenni, Brandi è stato critico
acuto e instancabile: non soltanto nei libri d'estetica e critica d'arte,
ma anche nelle pagine che consentono di apprezzare la vena rievocativa di
un sensibilissimo osservatore viaggiante, che dal 1954 (quando esce il
memorabile «Viaggio nella Grecia antica») ha continuato ad allungare il
suo occhio, curioso e rivelatore, ora nella quiete soleggiata delle «Città
del deserto» (1958), ora nelle piccole e grandi meraviglie enunciate nei
capitoli di «Pellegrino di Puglia» (1960), «Verde Nilo» (1963), Martina
Franca (1968); o nelle pagine più incisive di «A passo d'uomo» (1970), «Budda
sorride» (1973), «Persia mirabile» (1978), «Diario cinese» (1982).
In questi avvincenti resoconti di viaggi (di recente ripubblicati da
Editori Riuniti), così come nei libretti dedicati all’Umbria («Umbria
vera», 1986) e a Siena («Aria di Siena», 1986) Brandi, come "massimo
teorico mondiale del restauro conservativo", non se ne sta a bisbigliare
in penombra; ma consente all'estro balenante dello scrittore di
manifestarsi in una miriade di notazioni che illuminano squarci di vita
vivente, scorci di bellezza segreta e fuggitiva, angoli di silenzio, in
cui, inopinatamente, il senso di umanità rifulge come un granello di luce
in una nicchia d'ombra protettiva.
Nell'ambito letterario, la presenza di Brandi poeta è affidata a tre libri
(le «Poesie» del ’35, «Voce sola» del ’39, «Elegie» del’42) ma spunta
anche nel campo degli studi artistici: nei quali la figura dell'estetologo
emerge netta già nel «Carmine o della pittura» del '45 (segnalato
positivamente dal severo Croce) e si sviluppa, mantenendo
un'inconfondibile omogeneità di fondo, in tre testi fondamentali: «Segno e
immagine» del ’60 (ripubblicato nel 1986 e nel 2001 in Aesthetica
Edizioni), «Le due vie» del '66 (ed. Laterza) e «Teoria generale della
critica» del ’74 (ripubblicata nel '98 da Editori Riuniti).
In «Segno e immagine» ("un classico dell'estetica del 900" secondo Luigi
Russo) è impostata la distinzione fondamentale tra la realtà dell'arte,
costituita dalla sua presenza stilistica o formale (che si realizza in
figure da apprezzare nella loro specifica consistenza autonoma), e quella
del segno (come veicolo di significati, messaggi, informazioni che
riducono le figure qualitative dell'arte a segno di qualcos'altro). Da
questa premessa nasce la progressiva elaboratissima indagine brandiana,
che mira a chiarire il rapporto tra segno e immagine, così come si è
realizzato nelle opere delle più diverse culture e situazioni storiche:
dalla preistoria alla civiltà egiziana, all'iconografia bizantina; dal
manierismo alle tendenze novecentesche, fino alle ultime riesaminate in
una smagliante sintesi del 1978, che conclude il secondo volume degli
«Scritti sull'arte contemporanea» (ed. Einaudi).
Nelle pagine dense del libro intitolato «Le due vie» (di cui Eco segnalava
la "coraggiosa inattualità" avversa alla moda semiologica) e in quelle in
cui è svolta la «Teoria generale della critica», la tesi impostata in
«Segno e immagine» risulta riformulata e corretta: al precedente rifiuto
della tendenza "astratta" subentra una soppesata e complessa
riconsiderazione volta all'apprezzamento di artisti come Afro, Burri,
Rothko. L'impostazione teorica ha subito qualche modifica non
trascurabile; ma gli interventi sull'arte contemporanea, posteriori alla
«Teoria» del '74, attestano che anche gli ultimi sviluppi della ricerca
brandiana ribadiscono sostanzialmente la conclusione già espressa in
«Segno e immagine»: il panorama artistico novecentesco mostra una
situazione di insofferenza formale e di persistente sopraffazione del
segno sull'immagine. "Ricollegandosi per i nove decimi a Duchamp, a Man
Ray e al Dadaismo" (si legge in «Ancora la fine dell'avanguardia» del
1978), l'andamento artistico s'accontenta generalmente di un regime di
adeguazione o ripetizione: anche nel corso della nuova figurazione, della
body-art, dell'arte concettuale e della cosiddetta Nuova Pittura o di
quella dei transavanguardisti, abbarbicati ai precedenti da cui non
riescono a staccarsi. Queste conclusioni attestano il flusso eversivo
delle differenziate tendenze dominanti e sono, certo, da riesaminare in
rapporto a eventuali nuovi sviluppi imprevedibili. Ma sono conclusioni
coincidenti con quelle dichiarate dalla pattuglia degli osservatori più
dotati, che comprende Arnheim, Gombrich, Barthes, Rosenberg, R. Klein,
Gadamer... Quest'ultimo, in un'intervista pubblicata nel 1989, non ha
affermato che "di tutto quello che viene prodotto e così ingenuamente
esaltato" dai pubblicitari, "ciò che è veramente valido non supera, senza
ombra di dubbio, il cinque per cento"? Dunque il dissenso di Brandi, nei
confronti delle tendenze tardonovecentesche, non è affatto solitario. Non
è frutto di umori apocalittici ma di argomentazioni altrettanto rigorose,
e convincenti, di quelle che si leggono nella «Teoria del restauro» del
'63 (ed. Einaudi): un prezioso libretto che in sessanta pagine condensa il
risultato di oltre vent'anni di lavoro, svolto dal '39 (data di fondazione
del romano Istituto Centrale del Restauro) dal giovane direttore, assetato
di cultura adatta a "determinare le condizioni necessarie per il godimento
dell'opera d'arte come immagine e come fatto storico": da salvaguardare
dal logorio del tempo, dai maltrattamenti di restauratori inesperti o
incauti, e dall'incuria dei politici e dei tecnici o burocrati che
dovrebbero svolgere opera di tutela.
Su quest'ultimo punto, la lucidità argomentativa di Brandi "ambientalista"
(coraggioso non meno di Antonio Cederna) spicca nell'antologia dei suoi
scritti giornalistici, raccolti da Massimo Capati sotto il titolo «Il
patrimonio insidiato» (Editori Riuniti). Scritti vivaci, leggibilissimi,
dettati dalla vena argomentativa di un umanista che ha segnato "una svolta
nell'orientamento dell'estetica contemporanea" (Abbagnano): ma non si è
chiuso nella torre d'avorio, e ha continuato, con tenacia erasmiana, a
svolgere opera di bonifica etico-culturale: a favore della tutela del
paesaggio e dell'arte come "un insieme indissolubile". E contro la
"spasmodica corsa alla maggiorazione dei prezzi delle opere d'arte" e
"l'universale riduzione dei valori a valore monetario". Si spera che
almeno questi scritti divulgativi, accanto agli studi sull’architettura (
raccolti in «Struttura e architettura», Einaudi 1967), al «Disegno della
Pittura italiana» (1980) e al «Disegno dell'Architettura italiana» (1985)
editi da Einaudi, non sfuggano all'attenzione dei lettori più vispi. E
magari finiscano sul tavolo di lavoro degli amministratori civici, e degli
addetti alla difesa dei Beni Culturali, come un viatico prezioso: per non
ripetere tanti errori, avvistati prontamente e denunciati dall'occhio
linceo di Brandi.