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Rassegna stampa
2007-03-00
Speciale "Brandi cento anni dopo"
pubblicato in «Il Giornale del Restauro» - Rapporto annuale de «Il
Giornale dell’Arte / dell’Architettura», marzo 2007, pp. 12-13.
Intervista di Barbara Antonetto a Bruno Zanardi
Brandi, cento anni
Una teoria, non un dogma
Influenzati dal gusto dell’epoca, i principi brandiani
vanno storicizzati
Incontro Bruno Zanardi nel ben attrezzato laboratorio di restauro
dell’Università «Carlo Bo» di Urbino, finora unica Università in Italia ad
aver promosso un corso di laurea specialistica per la formazione dei
restauratori. Con lui, che è stato in rapporti di personale amicizia con
figure centrali nella più recente storia del restauro, come Cesare Brandi,
Pasquale Rotondi e il suo maestro diretto Giovanni Urbani, parliamo del
centenario brandiano del 2006. E non solo.
Professor Zanardi, che conclusioni si possono trarre dai numerosi
convegni che hanno segnato l’appena concluso «anno brandiano»?
La prima e più importante è che benissimo si è fatto a festeggiare il
centenario della nascita di Cesare Brandi, figura i cui meriti di teorico
del restauro e di fondatore dell’Istituto centrale del restauro sono, e
restano, enormi. Preoccupa invece il tono dato in quei convegni al
pensiero di Brandi come «pensiero unico» sul restauro.
Vale a dire?
La glorificazione di quella Teoria elevata a una sorta di metafisica
categoria dello spirito.
Invece?
Invece la Teoria del restauro può continuare a vivere solo se la si
storicizza. Se si prende atto che si tratta di una teoria estetica dove,
mezzo secolo fa, sono stati esposti dei ben fondati principi per il
restauro dei dipinti, tuttavia inevitabilmente influenzati da cultura e
gusto della loro epoca. Pensi alla verticale differenza tra la
prudentissima pulitura condotta dall’Icr di Brandi sulla «Pala di Pesaro»
di Giovanni Bellini negli anni ’40 del 900, che fu di guida alla celebre
polemica contro la National Gallery di Londra sulle patine, e quella
subita nel 1988 dalla stessa opera, molto più radicale perché eseguita
secondo il nuovo gusto di quegli anni, maggiormente dominato dalla tecnica
moderna. O pensi alla forte sintonia con l’arte astratta di dipinti
antichi destrutturati da lacune di colore lasciate in vista come intonaco,
legno o tela.
Malte rugose, legni tarlati, tramature di tele, abbassamenti di tono,
integrazioni a tratteggio sarebbero quindi frutto di un «gusto d’epoca» in
sintonia, ad esempio, con la matericità dei «Sacchi» di Burri o con i
sensibilismi tonali di Morandi?
Diciamo che sono anche in sintonia con cultura e gusto di quell’epoca. Del
resto gli artisti da lei citati furono entrambi amatissimi da Brandi, che
dedicò loro pagine di rara bellezza di scrittura. E mi lasci dire che la
capacità di lettura sensibile delle opere d’arte di Brandi, anche e
soprattutto di quelle antiche, è stata forse superiore a quella dello
stesso Longhi. Ma mi lasci anche dire che, in particolare per le puliture,
quel gusto d’epoca non è troppo da demonizzare.
Recenti trattamenti «astratti» delle lacune?
L’inedito informel medioevale privo di qualsiasi senso figurativo e
storico in cui il recentissimo restauro ha restituito la Vela di Cimabue
crollata a terra nella Basilica di Assisi per il terremoto del 1997.
Altri punti da storicizzare nella Teoria di Brandi?
Una supina adesione a quel testo porta a concludere che la tutela del
nostro immenso patrimonio artistico vada fatta restaurandone, nel senso di
rivelazione estetica, uno per uno le decine di milioni di manufatti di
ogni forma e genere che lo costituiscono: un’impresa prima ancora che
impossibile, inutile, e tuttavia quella oggi perseguita come politica di
tutela. O ancora, quel testo nasce in anni, quelli del secondo dopoguerra,
di fede assoluta nelle «magnifiche sorti e progressive» della scienza e
della tecnica, con la conseguente presunzione che la nostra generazione
non avrebbe più restaurato come lo si è sempre fatto, cioè alterando e
manomettendo, ma sempre e solo salvaguardando ad libitum le opere d’arte
nella loro autenticità estetica.
Mentre nella realtà?
Si sono strappati «scientificamente» chilometri quadrati di affreschi e si
sono trasportate su nuovi supporti migliaia di tavole e tele, senza stare
a vedere le alterazioni e le manomissioni strutturali che così si
producevano, né le pesantissime ricadute sia sul piano conservativo che
estetico di quelle operazioni. Quel che ancora oggi accade con le
foderature dei dipinti su tela eseguite nella quasi totalità dei casi con
pesantissimi ferri da stiro o rulli caldi: in barba a ogni scienza,
null’altro del «ferro da inamidare riscaldato» consigliato nel 1756 dal
canonico Crespi. E non parlo di come e da chi venga oggi eseguita la gran
parte dei restauri di rivelazione appena detti. Non parlo cioè delle
decine di migliaia di restauratori privi d’una qualsiasi formazione oggi
al lavoro in Italia. Non per loro arroganza, ma perché mai il Ministero si
è preoccupato del problema, ovvero, quando l’ha fatto, ha ulteriormente
confuso le carte. Con il bel risultato che i lavori di restauro vengono
oggi sempre più spesso aggiudicati con gare d’asta al ribasso vinte da
imprese edili e da queste poi subappaltati ai restauratori di cui sopra.
Soluzioni?
Se è vero che una disciplina scientifica può crescere solo revocandosi in
dubbio a ogni suo stadio di sviluppo, si deve anche revocare in dubbio che
il problema del patrimonio artistico italiano continui a essere
soprattutto quello di realizzare restauri sempre più esteticamente
raffinati. Dimenticando come, nella realtà, quegli stessi restauri spesso
colgano esiti conservativi incerti e risultati estetici aleatori e
opinabili, rischiando in tal modo di fare dei restauratori degli speciali
«sicari dell’entropia».
Sviluppando il problema come?
Mettendosi nelle condizioni che le opere d’arte abbiano sempre meno
bisogno di restauri, come consente con facilità una ben programmata opera
di prevenzione dai rischi ambientali e di manutenzione ordinaria. Che poi
è anche l’unico modo razionale, coerente ed efficace per poter conservare
nella sua totalità l’ultramillenario e indistricabile rapporto tra
patrimonio culturale e paesaggio naturale che rende unica al mondo la
bellezza dell’Italia.
In termini operativi?
Dare corso a quella «Conservazione programmata» che stiamo aspettando
dagli anni ’70 del 900. Cioè da quando Giovanni Urbani ne ha elaborato le
generali linee tecnico-scientifiche, organizzative e formali: primo e
finora unico, Urbani, ad aver storicizzato e innovato, senza mai
rinnegarlo, il pensiero di Brandi.
Speranze?
Le non molte consentite da un paese completamente immobile come l’Italia
è. Resta però un fatto che il gruppo politico della «Margherita», di cui
Francesco Rutelli è presidente, ha posto la conservazione programmata al
centro del proprio programma di governo dei beni culturali.
Un giudizio sui primi passi di Rutelli?
Ottima la chiamata di Salvatore Settis alla presidenza del Consiglio
superiore dei beni culturali, anche se quel Consiglio mai si è finora
insediato perché ancora non hanno nome e cognome gli altri componenti,
quindi per ora è poco più di un bon conseil. Più discutibili la
cancellazione dell’Istituto Centrale del Restauro a favore di un inedito
Istituto Superiore, i soprintendenti ad interim, la polemica con il Getly
Museum, il non aver preso una netta posizione contro l’aggressione
ambientale delle villette, ville e condomini di Monticchiello e di
Mantova. Ma finora si tratta di piccole-grandi cose, di scaramucce.
Mentre il vero punto su cui giudicare Rutelli?
È vedere se, e come, onorerà l’impegno di governo preso dalla «Margherita»
con i suoi elettori, di una grande riforma delle politiche di tutela,
risarcendo un ritardo culturale e progettuale così grave che se oggi
piovesse con la stessa intensità del 6 novembre 1966, Firenze e Venezia
andrebbero di nuovo sott’acqua. Come quarantuno anni fa.
Per Rutelli, non proprio una passeggiata...
Infatti non gli si chiede di passeggiare, ma di governare. Ad esempio,
ridefinire strumenti di legge, profili professionali e percorsi formativi
dei diversi attori della tutela, oltre che i compiti d’indirizzo di
Ministero e Soprintendenze per l’attuazione della conservazione
programmata sul territorio in coordinamento con Università, Regioni, Enti
locali, Chiesa e altri privati proprietari. Argomenti molto diversi dal
trattamento estetico delle lacune dei dipinti.
Intervista di Barbara Antonetto
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