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I
Luoghi di Cesare Brandi
PORTOGALLO
(torna
alla pagina con le foto abbinate alle citazioni bilingue)
Cesare
Brandi
capitolo
sul Portogallo
tratto
da Cesare Brandi, A passo d'uomo, Editori Riuniti, Roma 2004,
pp. 121-139.
SCHEDA
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Il Giardino botanico
Nella Sé di
Lisbona, che è il nome portoghese per cattedrale (Sé, vale a dire
Sede dei vescovo), in una
delle cappelle del deambulatorio aggiunto nel Trecento alla chiesa
romanica, al solito mezzo distrutta da un terremoto, c'è un
sarcofago scolpito, dove, secondo l'uso borgognone, ai piedi del
morto è figurato il cane. Ma qui i cani sono due e un terzo sta sul
lato sinistro. Non basta: questi cani irriverenti, invece di
piangere il padrone sulla sua tomba, lasciandosi morire di fame,
sbranano con appetito un pollo, di cui, il cane a sinistra, si vede
che si è appartato apposta, com'è l'etichetta dei cani, per
divorarsi tranquillamente la testa. La scultura è men che mediocre,
ma l’interpretazione non è dubbia. Si dà il caso che il gallo sia un
po' il simbolo del Portogallo, anche se non c'entra per niente nel
nome, e che questi cani, intenti a nutrirsi col simbolo del proprio
paese ai piedi del padrone trapassato, danno molto piú nell"humour
nero che nel grottesco. Se ne potrebbe ricavare una moralità
sullo stato attuale del paese, che non vuole arrendersi a
considerare se stesso, come potenza coloniale, defunto, e, in questa
veglia estenuante, finisce per nutrirsi con le sue stesse spoglie.
L'Angola, con la sua guerriglia senza fine, costa quattro anni di
servizio militare ai giovani portoghesi, costa troppo piú di quel
che renda al paese, già in mano a capitale estero per la maggior
parte dei servizi che fruttano: per poi finire come è finita
l'Algeria, l'Indocina e ogni altra impresa coloniale, della cui
presenza fuori dei tempo l''Italia dette il
primo esempio, e, fra le sue rare fortune, fu la
prima a disfarsene.
Forse per questo fato incombente di cui nessuno parla
e tutti ci pensano, il Portogallo è cosi melanconico: verde, civile,
e melanconico. E davvero dispiace perché questa civiltà del paese si
respira con l'aria, con la pulizia, col decoro. Vedere, ad esempio,
il Giardino botanico, giustamente l'orgoglio di Lisbona. È aperto al
pubblico, non c'è mica il biglietto d'ingresso, come ad esempio a
Rio de Janeiro. È aperto al pubblico e ci vanno i giovani della
facoltà universitaria che ci confina. Ma il silenzio è severo come
il verde fondo di tutti questi alberi fitti e bellissimi, che si
assiepano sul pendio del colle su cui, nella seconda metà
dell'Ottocento, fu piantato. Il silenzio è quasi sordo, in questi
anfratti di ombra densa che neppure gli uccelli sembra riescano a
solcare. Gli alberi rari di tutte le parti del mondo crescono come
fossero in serra, e invece sono all'aria libera, il sole vi arriva
come nelle glorie barocche, con i raggi d'oro zecchino, che sembrano
bruciare, dove arrivano come concentrati da una lente. Perfino
l'acqua che scende e serpeggia è silenziosa: i giovani parlavano
piano come in chiesa, e non so dove buttassero i mozziconi di
sigaretta perché non se ne vedeva per terra. Forse neppure fumavano.
Entro quel verde solenne i fiori erano pochi, e
perfino i profumi. Non il favoloso giardino d'Armida, ma un bosco
stregato dove forse gli studenti diventano alberi, prima perdono la
voce, poi lentamente si abbarbicano al suolo, sviluppano le braccia
in rami, le dita in foglie, la testa si ringuàina nel tronco come fa
la tartaruga dentro il guscio. Ognuno può scegliere l'essenza in cui
trasformarsi, canfora, magnolia, cipresso cinese. Il giorno dopo il
bosco è appena più fitto e la scorza sanguinerà a quell'albero in
cui lo studente solitario inciderà un cuore trafitto. Ma nessuno
incide il cuore sui tronchi d'albero del giardino incantato.
Più giù si scende e più gli alberi salgono per
toccare il livello di quelli in alto, finché di colpo ci si ritrova
in città, come ad essere su un palcoscenico che figura un bosco, e
appena oltre passata la quinta, eccoci in uno stanzone squallido dal
soffitto altissimo. Il bosco non era vero, era solo una scena. Cosi
appena usciti dall'Orto botanico di Lisbona, chiuso in un anello
stretto di case, il giardino non sembra più vero, e quel silenzio,
che pareva ottenuto come quando si fa il vuoto, per sottrazione del
suono, ci appare quasi un vago incubo da cui ci siamo svegliati e
ormai ne siamo fuori. L'incubo non esisteva, il giardino s'è
lasciato alle spalle, il silenzio s'è richiuso in se stesso come un
coperchio.
Si scende all'Avenida da Libertade, grande come gli
Champs Elisées, con tanti bei platani e aiuole fiorite. Passano le
macchine, la gente passeggia. Ma c'è questa melanconia che non si
dirada. Non basta che siamo fuggiti dal bosco meraviglioso e
stregato dove gli studenti diventano alberi e gli uccelli perdono il
canto. Quel bosco, quel silenzio, quell'alone di incantesimo sta
alla base di tutto, in Portogallo, si ritrova come l'inconfondibile
sapore che qualsiasi cibo di un paese tiene in serbo, in fondo in
fondo, e li accomuna tutti, quasi fosse il nume indigete che sia
andato a rifugiarsi, cacciato da tutti i luoghi, nella gola. È lì
che si assapora la Francia, in quel gusto d'aglio e di caccia
frolla, o la Spagna nel profumo
appassito e avvolgente del Jerez, o la Toscana nei miseri fagioli
lessi. C'è ben altro, mi direte: ma poi accade che le immagini si
affievoliscono, i ricordi si annebbiano, e voi ad un tratto,
in un boccone, in un sorso, avvertite uno scatto sordo e vi sorge
dentro una chiesa, una piazza, una campagna. Avete ritrovato quel
paese, e nel risucchio del tempo s'è aperta come una falla, s'è
prodotto un arresto.
Cosi sarà del Portogallo per me, quando mi colga
un'ombra cupa e silenziosa ferita da raggi di sole denso come l'oro,
di un sole che ha attraversato le tenebre.
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Sintra
Tanto avevo sentito parlare di Sintra e mai della
straordinaria cucina. Certo, quando un luogo ha fatto la delizia di
Byron, e da Strauss è stato valutato come il vero giardino di
Klingsor (quasi che Ravello sia da buttar via), attaccarsi ad una
cucina sembrerà molto prosaico; ma, a parte le piante straordinarie
dell'immenso parco che ammanta un monticello ripido come quello del
Purgatorio, la cucina del Pago di Sintra, ossia del vecchio Castello
reale, non ha rivali se non in quella dell'Abbazia di
Alcobaça;
sempre in Portogallo dunque, e anche di questa occorre celebrare la
bellezza. Ma per Sintra, figurarsi che, non appena da lontano si
vede salire all'orizzonte il colle su cui si trova la squisita
cittadina, una cosa colpisce che non si sa, sulle prime, come
interpretare: sono due grosse fiasche rotonde in muratura, grandi
come cupole e fatte a fuso che, invece di finire col cupolino,
mostrano il collo stretto d'una borraccia. Tutto intorno è un
saliscendi di tetti, di logge, di finestre manueline ricamate come
una tovaglia da chiesa; loro, le due gonfie fiasche, troneggiano
come chiocce nel cestino. Covano la casa; sono lo stomaco, se non il
cuore, della casa. Allora, quando
si penetra nell'interno, finalmente si capisce come stanno le cose:
sono in realtà due immensi camini, due cupole forate in alto, che
prendono tutto lo spazio della cucina. E il fuoco, anzi i fuochi si
facevano lì sotto.
Un'enorme colonna montante d'aria calda e di forti
aromi, della cucina araba e lusitana, doveva riversare i profumi
della mensa reale per tutto il paese: e lì, sotto quelle volte
altissime, nel bel mezzo, guizzavano le fiamme, a lato sfrigolavano
i fornelli, si spalancavano le fauci di due forni. C'è ancora,
proprio sotto la prima cupola-camino, un'enorme rastrelliera che
sostiene degli spiedi lunghi come lance e grossi come una canna di
bambù: su quegli spiedi rosolavano vitelli interi e montoni. E ci
doveva volere la forza di un toro, per girarli con quella piccola
manovella. Da un canto c'è poi come un armadio a muro di ferro, dove
i palchetti sono griglie, di ferro anch'esse, e sotto ci doveva
essere un focone per scaldare le stoviglie: che il grasso di montone
non si rassegasse in un piatto freddo per i palati regali. Poi
pentoloni, caldaie, splendidi mortai lungo le pareti e sopra i
fornelli. Naturalmente è tutto rivestito di mattonelle, in questo
paese delle mattonelle, e le due enormi cappe non hanno più traccia
di fuliggine: un museo è questa cucina, come lo è diventata quella
del Serraglio di Costantinopoli. Ma quale museo: come fa partecipare
di colpo alla vita di questa corte mezzo araba, mezzo gotica, mezzo
rinascimentale. Gli odori non ci sono più, ma si sentono come se
avessero lasciato un'impronta nell'aria: e a petto di questa cucina
monumentale le altre sale del castello fanno ridere. Anche quella
col camino che potrebbe essere del Sansovino, quando venne in
Portogallo. Ma di queste sale, troppo più belle se ne è viste: una
cucina simile, mai.
Dovevo tuttavia provare un'altra grande sorpresa con
quella del monastero famoso di
Alcobaça. Era di
cistercensi che in genere non sono mai stati celebri per grandi
prelibatezze del mangiare. Ma erano in tanti, ai loro bei tempi,
che, come il dormitorio sembra una piazza d'armi coperta, cosi la
cucina ha proporzioni ecumeniche. Ed è tutta diversa da quella di
Sintra. Nella sua redazione attuale è rinascimentale e
settecentesca, ma è chiaro che l'impianto rimane ancora quello
medioevale. Figurarsi, uno stanzone lunghissimo e altissimo, in cui
nel mezzo c'è come un portico sostenuto da colonne doriche: e queste
reggono una vertiginosa cappa di camino che arriva, come una
piramide, sino al tetto. Sotto, nella fossa appena ribassata,
potevano cuocere almeno sei mezzi bovi, e senza urtarsi. Ma non
bastava: lungo una delle pareti, c'era un'altra fila di focolari,
con le cappe altissime che confluiscono in quella centrale. Certo,
il tiraggio doveva essere ottimo: le preghiere non saranno state
abbreviate o disturbate dagli odori indiscreti della cucina. La
quale, concepita a quel modo, doveva servire più per gli arrosti che
per i fagioli lessi.
Arrosti, s'intende, anche di pesci. Per averli a
portata di mano e sempre freschi, un condotto faceva arrivare un bel
rocchio d'acqua corrente non solo alla fila ininterrotta di pile di
marmo che si allineano lungo la parete opposta ai focolai: in fondo
alla cucina, sotto le finestre, c'è infatti una bellissima vasca a
filo dell'impiantito, come una vasca moresca, e li l'acqua scorre di
continuo e li vivevano le trote per i bravi monaci che facevano
penitenza. La penitenza continuava in una cantina con le colonne e
le volte robuste come una cripta.
Ma non è finita: proprio all'ingresso s'incontra una
grande e massiccia tavola di pietra dove venivano tagliate,
preparate, imbandite le vivande: è spessa più di un palmo. Su di
essa poteva calare una mannaia senza infrangerla. E sembra di
vedere, come in un quadro fiammingo, ammonticchiarsi la carne, i
pesci e la verdura, su quella mensa; prima cruda e poi cotta.
Si dirà che ad
Alcobaça c'è ben altro da vedere: la
splendida chiesa che è almeno il doppio in lunghezza di Casamari e
di Fossanova, le sue sorelle italiane. Ci sono i due superbi
sepolcri di Ines de Castro e del re Don Pedro I: certo le due più
belle sculture medioevali del Portogallo, e le più intriganti, per
così dire, perché portoghesi non sono di sicuro e sudano umori
francesi da ogni parte. Infine il chiostro solenne e vastissimo con
la squisita fontana. Di tutto questo si potrebbe parlare a lungo e
su un altro tono. La cucina è una cosa ben più modesta: ma, come a
Sintra, quando s'è vista, annebbia il resto.
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Obidos
Non era prevista una fermata ad Obidos: neppure
sapevo che esistesse, visto che di fondamentale, per l'arte
portoghese, non c'è nulla. Ma felice ignoranza e felice scoperta.
Perché, se c'è ben altro in Portogallo, e Batalha e
Alcobaça,
Coimbra e Tornar, questo paesino bianco, Obidos, entro mura merlate,
quasi offerto su un vassoio, è qualcosa che sta fuori del tempo,
come una città morta, e dentro il tempo, come una cosa viva.
Le mura sono rozze, grigie, senza orpelli. Da questa
campagna, cosi diversa e cosi simile, per la sua purezza, alla
campagna toscana, sorgono come un recinto dove non si possa entrare.
E invece ci s'entra, da una porta a gomito, che gli antichi dicevano
scea, e la strada, che ci si para davanti, è fiancheggiata di
case basse, tutte bianche, tutte linde, tutte con i vasi alle
finestre, e fioriti. Pensate pure ad Assisi, e più ancora a Cordoba:
Obidos è un'altra cosa. È questa civiltà in conserva, che fu
composta con tutte le droghe dell'oriente e dell'occidente, e, così
mummificata, invece di coniugarsi al passato, sopravvive, decorosa,
melanconica, piena di luce e di tenere ombre.
Obidos non è niente altro che queste vecchie case
pulitissime e fiorite, la strada che si destreggia fra le case, con
piccole gradinate per scendere, piccole salite per arrivare al
castello, neppure tanto restaurato. E dovunque fiori, ma non
disseminati in modo turistico, con un premio per la finestra più
fiorita. Sono fiori che, più modesti, non potrebbero essere, gerani
e garofani o quei fiori delle zitelle, viole del pensiero e
non-ti-scordar-di-me: fiori, che non li degni di uno sguardo, in un
giardino, ma che qui ti appaiono nuovi e come superstiti dal diluvio
universale. Cosi guardi le modeste lucernette cristiane, o i
poppatoi di coccio che vengono fuori degli scavi e che immergono nel
passato più dei preziosi vasi che spesso, nelle necropoli, li
accompagnano: codesti sono belli in sé, ma le lucerne, i poppatoi, i
più modesti ariballi conducono dritti alla vita quotidiana, a quello
che fu il giorno: le opere e i giorni.
Ora si potrà opporre: e c'è bisogno di andare in
Portogallo, per un'immersione così a buon mercato nel passato? Non
c'è forse in Italia... E qui vi volevo. Perché in Italia non c'è più
nessun luogo che sia conservato come Obidos, e come, a parte le
caratteristiche uniche e modeste di Obidos, è in Portogallo la norma
costante. In Italia, un paesino come Obidos (e se ce n'era!) ha
subito il suo ridicolo quasi-grattacielo, le casette presuntuose che
hanno tenuto a nascere accanto alle mura, senza garbo, senza
rispetto, senza altruismo né per gli uomini né per le cose.
Si vada a vedere Siena, che è qualcosa più di Obidos,
e si veda quel che è stato fatto a ridosso delle mura e sotto il
forte dei Peruzzi, a Porta Pispini, o a Porta Camollia, o a Porta
Romana. Ho detto Siena, mica Peretola, degnissimo luogo per altro ma
non certo al pari di Siena. Così ci si difende in Italia: e abbiamo
una rete di Soprintendenze, e abbiamo una cultura che certo vagì
troppo prima di quella del Portogallo.
Rispondiamo ad un'altra obbiezione: il Portogallo non
ha avuto il miracolo economico, è depresso per la dittatura, per la
guerra coloniale, è indietro sul tempo in cui vive. Tutto ciò è, più
che vero, sacrosanto. Ma anche in Portogallo si costruisce, per
depresso che sia, anche in Portogallo ci sono le automobili, la
radio e la televisione: e per esempio, già si mangia peggio, in modo
più generico cioè, di quando ci ritornai quindici anni or sono. Ma
le città sono intatte: e seppure i monumenti talora sono troppo
restaurati, come Alcobaca, non mi è mai capitato di vedere in gara
un campanile gotico con un grattacielo. Questo paese, che non ha mai
preteso, per quanto ne so, di essere il paese dell'arte, ha più
rispetto per l'arte, della benedetta culla delle Muse che sarebbe
l'Italia. E non parliamo della natura: dell'amore per le piante,
dell'amore per i prati, verdi, rosati, compatti, anche se meno umidi
che ad Oxford. Non una cartaccia, non un pacchetto di sigarette
spiegazzato. E questo, mica nei centri più grandi, ma ovunque. Se
mai, è la sera, nell'Avenida da Libertade (davvero appropriato,
questo nome!) di Lisbona, che si vede un po' di carta straccia; ma
nelle cittadine, nei paesini, che lindura, che decoro: e non come in
Svizzera, che te lo rinfacciano ad ogni momento, come dicessero: noi
soli siamo puliti e voi lerci. Il decoro della città e del paesaggio
portoghese è riservato e silenzioso: non rappresenta un bene di
consumo per cui sei tenuto a pagare il biglietto d'ingresso.
Così, lungo le strade, i giovani boschi di pini sono
nettati come con lo spazzolino da denti: appena un po' di
sottobosco, ma con giudizio. È tutto un parco dove sembra non entri
anima viva e dove non ci sono recinzioni spinate. Manca poco sono
tenute peggio le vigne.
La luce, sulla campagna, è alta come l'arcobaleno: ha
gittata atlantica, ed è limpida come in montagna e calda come nel
Meridione. Perché siamo nel Meridione, non scordiamocelo. E per chi
ama il Meridione e soffre dei suoi mali congeniti, ereditari,
ricorrenti, trovarne uno che gode dei pregi del Nord e del Sudsenza
i difetti, sembra un miracolo: è un miracolo.
Non voglio credere, non vorrò mai credere che questo
miracolo di educazione, di
rispetto, in una parola di civiltà, sia invece il portato di
un regime forzoso, di uno stato di costrizione in cui un popolo che
spadroneggiò per quasi un terzo del mondo, si trova ora a mordere il
freno, illudendosi che basti chiamare province quelle che sono
colonie arretrate, addirittura medioevali.
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Nazarè
Visto dall'alto, Nazarè, diciamolo pure, sembra un
lebbrosario: tante case basse, e tutte bianche, tutte coi tetti rosa
e staccate l'una dall'altra. Dall'alto l'oceano Atlantico si mostra
un mare qualunque, non così azzurro come il Tirreno non così verde
come l'Adriatico, non così trasparente come lo Ionio: anzi un po'
torbido, senza essere sporco, come fa l'acqua quando ci si mette il
fumetto.
La spiaggia è larga, la rena non finissima ma le
barche ti incantano. Sembrano scarpe: scarpe con la punta all'insù,
tanto la prua è sollevata sulla cresta dell'onda. E sono barche
povere, senza motore. Quando c'è burrasca e le barche non tornano,
le donne si schierano lungo la spiaggia tempestosa, e pregano e
imprecano.
Le barche sono piccole, gli uomini per lo più non
sanno nuotare: odieranno il mare, certamente, come quasi in tutte le
isole, dove gli uomini non sanno nuotare, odiano il mare, vogliono
il continente. Qui sono in continente, ma in realtà il Portogallo è
un'isola: ci si sente sulla soglia dell'oceano come sulla porta di
casa, e dietro c'è la campagna ondulata, i boschi, le vigne. Ma è lo
stesso come essere in un'isola e per uscirne bisogna navigare. Cosi
furono tutti grandi navigatori, e non c'è personalità del passato
che non fosse navigatore: forse i due soli
uomini illustri che non siano stati navigatori sono
Nuno Conçalves,
il pittore misterioso di un solo retablo, e
Camões. Ma come è
isolata la poesia di Camões e com'è lontana; assai più lontana di
Virgilio e dell'Ariosto che imita con tanta eleganza: As armas e os
Barões
assinalados,
e cosi avanti, da un lato
con arma
virumque cano, dall'altro con le donne
i cavalier, l'arme, gli amori.
Belle ottave non tanto piene, ma dal fiato
lungocome il vento dell'oceano.
Così le donne si schierano lungo la spiaggia mentre
il mare colore acciaio mugghia e schiuma di rabbia: sono vestite di
nero, con uno scialle nero ripiegato sul capo, quasi un tetto. Sono
vestite a colori, quelle giovani, ed hanno sette sottane. Più che a
Montefiascone, e queste sette sottane, quando ballano si aprono a
rota, fanno una grande rosa di cui le gambotte robuste sono i
pistilli. Allora sono liete, è festa, e ballano: cosi a Nazarè. E
gli uomini hanno una specie di berretta sarda, nera con la nappa che
gli scende fino al collo. Ma è il cappuccio dei pescatori: anche a
Procida ce l'avevano quasi uguale. Sennonché a Nazarè lo portano
ancora, sui visi scavati nel legno duro e di un colore come fossero
appena usciti dall'itterizia. Scalzi, con i calzoni a quadri, le
camicie a quadri e la berretta. Le donne gli volteggiano intorno,
con tutte quelle sottane che s'aprono al vento come una giostra di
bambini.
Poi sulla spiaggia, ad un tratto, una presenza
inusitata. Sono un paio di bovi, proprio i bovi che tirano l'aratro
e qui invece le barche: così i pescatori le tirano su dal mare,
attaccandole al giogo dei bovi. Ma questi bovi che trascinano le
barche all'asciutto guidate dai bifolchi marini con la berretta
nera, quale vita antica di contadini e pescatori, quale società
arcaica, quale sguardo su un passato fossile! Lungo la strada che
costeggia la spiaggia, sotto il sole già cocente ma neppure tagliato
da una lama di vento orizzontale, ci sono i bagnanti nei soliti
inverecondi costumi, mentre passano le donne con sette sottane. Ma
anche loro le hanno scorciate, le sette sottane, siano pure sette,
ma sopra il ginocchio come quelle che ne hanno una a malapena. E
così accanto ai bovi che portano all'asciutto le barche, le
automobili americane, e accanto alle vecchie sotto il tetto di uno
scialle nero, i bikini, gli slip, le radioline, tutto un miscuglio,
tutto un pasticcio. Ma la società arcaica rimane: passa la
primavera, passa l'estate, tornano i tempi dei marosi furenti, dei
nuvoloni neri come draghi, la schiera di donne nere lungo il mare
ritorna, tornano i bovi, passata la tempesta, a tirare all'asciutto
le barche.
Cosi si sente, senza saperlo, quanto sia antico il
Portogallo, come né i viaggi, né i continui approdi di civiltà
diverse abbia no cambiato un fondo duro e segaligno: queste facce
come porte chiuse, questo parlare nasale e gutturale, quasi senza
vocali, dove le aspirate arabe e le gutturali visigotiche fanno del
latino originario quel che gli architetti manuelini fecero del
Rinascimento italiano.
E se si va a mangiare, è un eguale miscuglio di cose
aborigene e di cose lontane: il baccalà, che viene dal Nord, dalla
patria dei visigoti, è il cibo nazionale assai più del pesce fresco,
che ne possono pescare quanto vogliono, in Atlantico, e senza
pagarlo. Il baccalà, che te lo rendono soave e profumato come una
spalliera di timo, rosolato cosi dolcemente che il fuoco sembra gli
sia venuto dall'alto, a poco a poco, come con le gocciole d'olio.
Dove questo vino gentilissimo che è il vino verde bianco, scende
come la rugiada, una rugiada appena frizzante, una rugiada davvero
senza colore. E se si chiama verde è perché è fatto con l'uva
acerba, e non si può trasportare, ahimè, non regge. Così è di quelle
cose che vanno consumate sul posto, che la nostra civiltà dei
consumi non può inserire nei supermarket. Alzando il bicchiere,
contro l'Atlantico azzurrognolo, verdognolo, anche quell'acqua
pareva depurarsi, prendere la trasparenza soave dell'acqua marina,
di una pietra cioè, non del mare.
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Mafra
Mafra si trova in uno di quei luoghi che sembrano in
basso e invece sono un falso piano: dalla parte del mare s'allunga
l'orizzonte. Non s'allunga mai come in Toscana o in Umbria con tante
file di colline che vi scavalcano e degradano, s'allunga come se si
distendesse e dove tocca coi piedi è il cielo. Di fronte a questo
paesaggio, supino, sta Mafra, che non si sa come chiamarla, se
reggia, convento, chiesa. Perché è tutte e tre le cose insieme, e
anche ospedale e ora caserma, da cui uscivano, in certe divisine
grigie striminzite, portoghesi sottili e neri come grilli.
Perché volessi vedere Mafra, era soprattutto per
Filippo Juvarra che fu chiamato qua, nel 1720, avuto il permesso del
re Vittorio Amedeo, dal re Joao V, che arricchito dell'oro e dei
diamanti del Brasile, aveva soldi da buttar via. E gli ce ne volle
parecchi, a metter su questo Escoriai fuori tempo, enorme e
inamidato, che il destino volle fosse l'ultimo rifugio spaurito
della
sua dinastia moribonda, nel 1910. Dopo
di che fu repubblica: ma una repubblica cosi per dire.
Mafra fu dunque un frutto in ritardo, una specie di
incrocio fra il convento spagnolo e Versailles. Ma lo Juvarra, nei
suoi bellissimi schizzi, l'aveva pensata in ben altro modo: una
piazza grandiosa sarebbe stata, col castello in fondo, vaghi
recinti, la chiesa su un fianco. Il problema è sapere se l'ottuso
architetto tedesco, il Ludwig, si servì di qualche schizzo dello
Juvarra, non tanto per il grosso dell'edificio quanto per la chiesa,
che,
nei suoi elementi, più italiana di cosi non potrebbe
essere. Ma si dà il caso che di idee juvarrane vere e proprie ce n'è
una sola, la facciata con il timpano classico, che lo Juvarra dovè
pensare, sebbene non l'eseguisse lui, per la chiesa di San Filippo a
Torino, per uno di quei dissimulati rigurgiti palladiani che talora
ebbe: ma in fondo non è affatto sicuro che sia sua. E non vorrebbe
dire che, comunque, appartenendo al terzo progetto per San Filippo,
sarebbe certamente posteriore all'andata a Mafra, perché lo Juvarra,
come tutti i grandi artisti, le idee se le portava con i cromosomi
della nascita, e le riprendeva e sviluppava per tutta la vita.
Comunque, se un riferimento si può fare allo Juvarra, è quel
timpano: non altro. E invece è piena, la chiesa, di ricordi italiani
quasi letterali.
Intanto i due campanili laterali: derivano né più né
meno da quelli disegnati dal Borromini per San Pietro a Roma e mai
eseguiti, e la cupola, la più inattesa cupola di tutto il
Portogallo, risulta un gentile incrocio fra il Borromini di Sant'Ivo
e la cupola di San Carlo di Pietro da Cortona: con questo che, di
Sant'Ivo, riprende l'idea del cupolino il cui esterno è sviluppato
in esedre concave, e da Pietro da Cortona il motivo a colonne, che,
nel tamburo, fiancheggiano le finestre, ma s'azzarda a cosa che né
il Borromini né Pietro da Cortona fecero o avrebbero fatto, e cioè
trasforma il tamburo come a far eco al cupolino, in un recinto di
esedre concave, con dei timpani inflessi come la cresta di un
galletto di primo canto. Non si dice certo che sia un'idea sovrana:
è sviluppata per analogia, senza intendere che l'avere istituito il
tamburo come poligonale e rientrante, rispetto al bulbo slanciato
della cupola, produceva una contrapposizione dinamica, tipicamente
borrominiana, che, l'autore della cupola - sia il Ludwig o no - ha
subito tenuto a smorzare appiccicando nel punto di innesto più
fragile, fra tamburo e cupola, quel grazioso timpano esornante come
la cresta di un galletto. È chiaro che non c'è una visione
sistematica della spazialità architettonica e che gli spunti del
Borromini vengono ridotti ad una leggiadra modulazione di superfici.
Resta il fatto, tuttavia, che questi accenti inequivocabilmente
italiani rimangono confinati, per quel che ho potuto vedere
dell'immenso falansterio, alla chiesa, restando gli altri solo genericamente collegati
alla tradizione architettonica del tardo-barocco: cosi le cupolette
ribassate dei due padiglioni - torri che fiancheggiano l'enorme
edificio, che sono come eleganti coperchi di zuccheriera. Il resto,
spartimenti della facciata, grevi cortili, rientra in una vulgata
abbastanza scolorita: e non saranno certo le statuone marmoree
italiane, anche se c'è il Bracci, a risollevare l'anonimato generale
pur nell'interno della chiesa.
Mafra sta tutta nel convento - non è insomma
pianificata come Caserta: le case borghesi, intorno allo spiazzo si
arrestano timorose come davanti ad un reticolato. Insomma lo spiazzo
non fa piazza, e dalla scalinata
della chiesa, lo sguardo ha la gittata libera sulla campagna
che continua oltre i tetti (bassi per fortuna, ma per quanto
ancora?).
Nel bosco immenso dietro la reggia (che si
sviluppava, a sua volta, dietro il convento e la chiesa) pare ci
siano ancora i cervi: ultimi discendenti di quelli che con corna
immense popolano il piano nobile a quanto mi è stato detto, sotto
forma di grandi trofei e di gambe delle seggiole. Mi sarebbe
piaciuto vederli, questi mobili cornuti, ma era tardi e la reggia
non si poté visitare.
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Coimbra
Il fascino di Coimbra, più ancora che alla fama della
sua vetusta Università (e al superstite focolaio di libertà che
ancora alimenta) era dovuto per me ad una descrizione della
Biblioteca che mi aveva fatto Emilio Cecchi. Una specie di silente
santuario con minuscole cappelle, dove studiosi privilegiati si
isolano come in una cabina spaziale.
La strada per arrivare a Coimbra, da Lisbona, passa
per alcuni dei luoghi più rinomati del paese,
Alcobaça,
Batalha, ma soprattutto passa attraverso una campagna, ora boscosa,
ora a vigne, ora a prati, verde sempre, verde secondo una scala che
ha vari gradi ma tutti dello stesso timbro. Forse è questo che la
rende cosi riposante, e anche il fatto di quelle colline lente, come
il mare quando si calma, ma c'è ancora il mare di sotto. Sicché
l'orizzonte non è mai molto lontano: direi che la più grande
differenza con la campagna italiana è proprio questa. Solo in casi
rari si vedono i monti all'orizzonte, non tanto alti, non tanto
azzurri: il punto lo fanno i mulini a vento, che ancora funzionano
qua, e non per il diletto dei turisti, ma per macinare il grano.
Solo da noi i mulini sono stati sterminati in tal modo che ci hanno
tolto dall'organizzazione degli Stati con i mulini a vento: e
c'erano quelli delle saline di Trapani che erano una meraviglia,
così piccoletti, tascabili quasi. A vederli da Erice sembravano
girandole da bambini e davano un senso di gioco e di fiera paesana
ai lucidi e torpidi specchi d'acqua in cui il sale cominciava a
cristallizzare. In Portogallo i mulini funzionano e macinano il
grano: aspetto innegabile d'un arcaismo persistente seppure tanto
pittoresco. Macinano il grano, ma il pane non è mica meglio del
nostro, come invece dovrebbe essere a stare ai lodatori d'un passato
così passato che nessuno se lo può più ricordare. Tuttavia se il
pane non è migliore, col grano macinato a vento, quei grandi petali
di fiore che rotano senza fretta, come l'elica degli aerei che hanno
atterrato, sono l'unica presenza, come d'una kermesse ormai
conclusa, in una campagna per lo più assente di uomini, di bestie e
di case.
Quando si giunse ad
Alcobaça, la grande
abbazia apparve posata come un grosso modellino di legno fra casette
di lillipuziani. La sorpresa si riproduce a Batalha, dove, per
accrescere erroneamente l'isolamento e suggerire l'ampio campo di
battaglia, abbattono i bellissimi platani secolari che facevano
corona a questo che è il più composito insoluto e germinante
monumento del Portogallo. Che cosa gliene importa, a chi, a quali
sprovvedute persone, di fare il vuoto intorno ad un monumento, per
riprodurre un campo di battaglia? Non ci vuol molta fantasia
d'altronde, non c'è bisogno di muoversi da dietro lo scrittoio; un
piano è un piano. E poi si tratta di un evento così remoto, come,
per noi, la battaglia di Monteaperti. Mentre l'attualità del
monumento sta là dura e imperativa. Ora, proprio questi due
monumenti di Alcobaça
e di Batalha, soffrono di
una mancanza di legame al suolo: sembrano, l'ho detto, enormi
modelli posati lì e potrebbero stare altrove. Toglietegli i platani,
a Batalha, e l'estraneità del grande e caotico edifizio esploderà.
Questo malinteso scrupolo storico è stato l'unico caso, in
Portogallo, che mi ha messo di fronte ad una strage di alberi: da
noi, se Dio vuole, continua ad essere un fatto di tutti i giorni che
nessun ministro, per bene intenzionato che sia, riesce ad arginare.
Quando si arriva a Coimbra si dà il piacevole caso
che l'Università è l'acropoli della città, sta dove era la reggia,
corona, col suo sapere, l'abitato. Proprio nell'antica reggia fu
messa, e l'aula magna è ancora una specie di grande salone del
trono, con quell'aria contadinotta che hanno gli interni del
Portogallo, anche delle regge, poiché non c'era né una grande
tradizione pittorica né una plastica a sostegno di un artigianato di
fondo quasi rurale.
Fecero bellissimi mobili, certo, alla cinese, forse
anche prima dell'ondata di influenza inglese, che per un secolo ha
riempito il Portogallo di sedie Chippendale; e avevano bellissimi
legni, con tante colonie americane e africane. Tuttavia gli interni
sono un po' tutti rusticani, i soffitti dipinti fanno quasi pensare
ai mobili tirolesi, e, con tanta profusione di mattonelle
invetriate, gli impiantiti a mattoni serbano un incanto di comoda,
ampia, fresca casa di campagna.
L'Università, nel suo blocco centrale antico, è
contornata ora dagli edifici nuovi, fra cui la nuova Biblioteca. Ma
niente paura: quella antica che piace tanto ad Emilio Cecchi, è là,
lucida, specchiante, intangibile: adatta più al Parnaso che ad una
Università. Per arrivarci si attraversa una grande corte aperta sul
lato di fondo, con un'ampia vista sulla città e sulla campagna.
Laggiù scorre il Montégo, un fiume sul genere dei nostri, con una
modesta portata d'acqua d'un azzurro quasi stagnante, e con
bellissime anse bordate di alberi o fluenti come silfidi o gonfi
come chiocce. È bello e sereno il Montégo, con il suo serpeggiare un
po' simile all'Arno: ma ha più acqua dell'Arno, e la campagna parla
con un accento diverso; quel verde, che ho detto, come un basso
continuo, e d'uno stesso timbro.
La biblioteca è su tre campate, quante erano le
facoltà, quando fu fatta. Tre campate cui danno accesso archi
spaziosi, e nel sottarco alloggiano le porticine per salire al
ballatoio. Questo corre da tutti i lati e, per permettere di
arrivare ai palchetti più alti, contiene bellissime scale a pioli
nascoste fra montante e montante degli scaffali. Ma affinché siano
di facile uso e proprio non si vedano e con la loro utilitarietà non
disturbino l'ordine disinteressato, sono anch'esse laccate e dorate,
come gli scaffali, sicché quando tornano a sistemarsi nel loro
alveolo non si distinguono dal resto. Un ferro battuto e laccato
anch'esso, sporge al punto debito per appoggiare la scala e servire
tutto il settore: ma se non c'è la scala, dal basso non si vede
nulla. I libri sono solo per gli angeli, che hanno le ali.
Si stendono a terreno, come piste d'atterraggio,
meravigliosi tavoloni di mogano e palissandro, del primo mogano e
palissandro venuti in Europa: lucidi come pianoforti a coda,
ciascuno reca nel mezzo un calamaio d'argento grande come una
piccola fontana.
Ma è là, sul lato verso il Montégo, che ci sono le
minuscole celle, con la finestra che dà sul fiume, un'esigua
scrivania, la porticina che, quando è chiusa, ristabilisce la
scaffalatura come se nulla fosse. Come se non ci fosse, là dentro -
dentro questa specie di tiretto segreto - lo studioso che lavora e
sogna, lavora immemore distillando parole. Emilio Cecchi, e aprendo
uno di quegli uscioli, credevo quasi di vederlo.
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